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marie-dominique chenu
di P. Gerardo Cioffari OP
Iniziatore della rinascita teologica domenicana nel XX secolo è il P. Marie Dominique Chenu[1], la cui idea centrale è l’originalità del metodo teologico tomista nel quadro della teologia scolastica medioevale.
Nato a Soisy sur Seine il 7 gennaio 1895, Marcel Leon Chenu entrò nell’Ordine domenicano nel 1913 prendendo il nome di Marie Dominique. Frequentò gli studi teologici all’Angelicum di Roma, ove ebbe tra i professori il P. Reginaldo Garrigou Lagrange. Già l’anno del suo dottorato (1920) fu chiamato ad insegnare Storia delle dottrine cristiane a Le Saulchoir (Belgio), dove era stato appena fondato l’Istituto Storico di studi tomistici.
Nel 1927 usciva un suo impegnato articolo, sia pure caratterizzato da entusiasmo giovanile: La teologia come scienza nel XIII secolo. Ivi sosteneva che il metodo scolastico era caratterizzato da notevole rigore, rinviando continuamente alle fonti menzionate o chiaramente riportate nei testi teologici. Grande anche la fiducia nella ragione naturale, come quella che aveva nutrito lo stesso S. Tommaso, che più d’ogni altro si era liberato dal peso e dal freno della sacra pagina. Nelle Somme dei domenicani inglesi Richard Fishacre e Robert Kilwardby, a dispetto dell’aristotelismo filosofico, si nota una forte reticenza ad applicarlo anche alla teologia. Più presente la razionalità nel metodo teologico di Rolando da Cremona.
In questo articolo del 1927 Chenu voleva dimostrare che S. Tommaso è stato il primo ad applicare i principi scientifici della demonstratio aristotelica alla teologia. Anche altri, come Anselmo e Abelardo, avevano intrapreso questo cammino, ma solo con S. Tommaso l’opera viene portata a compimento.
In questo avvio teologico, Chenu subiva l’influsso specialmente di P. Mandonnet, esperto di teologia medioevale e fortemente sensibile alla contrapposizione fra agostinismo e tomismo. Di conseguenza, egli operava una presa di distanza dalle posizioni dell’altro teologo che insegnava allora a Le Saulchoir, Ambrogio Gardeil, che proprio in quello stesso anno aveva pubblicato l’opera sua più impegnativa, La struttura dell’anima e l’esperienza mistica. Lungi dal contrapporre agostinismo e tomismo, il Gardeil aveva in quest’opera utilizzato entrambi per dimostrare come l’anima nella sua esperienza mistica entra in contatto diretto con la Trinità, allo stesso modo in cui l’anima entra in contatto con sé stessa nell’autocoscienza sperimentale.
Come si evince da altri due scritti, Posizione della teologia (1935) e Una scuola di teologia . Le Saulchoir (1937), dopo il 1927 Chenu rielaborò il suo pensiero moderando e modificando le posizioni precedenti. La nuova visione sull’agostinismo fu provocata forse dalla lettura prima della suddetta opera del Gardeil e poi di un volume di E. Gilson su S. Agostino nel 1929. Prima però che potesse esporre organicamente tale sviluppo di pensiero, un certo scalpore fece la sua tesi di fondo di Una scuola di teologia, tesi che dal Congar venne esposta in questi termini: Con P. Chenu e sulle sue orme, noi credevamo alla teologia ed eravamo convinti ch’essa avesse ancora qualcosa da dire agli uomini d’oggi, a condizione che non si limitasse a ripetere le formule di una volta e sapesse cercare una risposta ai problemi del tempo[2] .
Dovette essere proprio la svolta filoagostiniana insieme alla tesi sulla necessità dell’aggiornamento del linguaggio teologico a giocare un brutto scherzo allo Chenu. Egli che nel 1927 aveva addirittura usato il termine “razionalismo” per sottolineare la centralità della ragione in S. Tommaso, veniva ora visto come un teologo che non apprezzava sufficientemente l’autonomia della filosofia e della ragione.
Secondo il Donneaud, dunque, la sua evoluzione teologica potrebbe essere stata causata anche dalle critiche degli ambienti ecclesiastici. A partire dal 1938 infatti Chenu sapeva che a Roma si avevano dei sospetti sull’ortodossia della sua concezione teologica. Gli veniva rimproverato di relativizzare la dottrina di S. Tommaso e di indebolire la certezza intellettuale dei dogmi e del sistema teologico. Convocato a Roma nel 1938, dovette sottoscrivere un formulario di 10 proposizioni. E come se non bastasse nel gennaio del 1939 il maestro generale Gillet gli sottopose altre cinque proposizioni. Proprio quando stava per pubblicare la seconda edizione de La teologia come scienza nel XIII secolo, ecco che nel febbraio 1942 finiva all’Indice la sua Une école de théologie, e a Le Saulchoir arrivava il visitatore canonico Thomas Fhilippe.
Sull’Osservatore romano del 9 febbraio 1942 a firma di mgr Parente si affermava che il P. Chenu porta discredito alla teologia scolastica, al suo carattere speculativo, al suo metodo, al valore delle conclusioni che essa tira dal dato rivelato. E tale discredito ricade su S. Tommaso.
Nell’edizione del 1943 La teologia come scienza nel XIII secolo passava dalla forma dell’articolo ad un volume di circa 120 pagine. Ma non cambiava solo la forma. Anche il contenuto subiva notevoli variazioni. Ad esempio, l’agostinismo non è visto più come fattore di conservazione, ma piuttosto di salvaguardia della teologalità della sacra doctrina (il teologo non procede solo a deduzioni e argomentazioni, ma vive anche la verità di fede). Di conseguenza prende le distanze dal P. Mandonnet, che contrapponeva tomismo e agostinismo, per dire che Tommaso ha portato a compimento le migliori esigenze dell’agostinismo.
Questo aspetto viene confermato anche dalla “Teoria della subalternazione”, che indica come fine della teologia non sia quello di trarre delle conclusioni valide, bensì di “conoscere Dio così come si è rivelato a noi”. Allontanandosi dunque dal Mandonnet, Chenu si avvicinava così alle più moderate posizioni del domenicano P. Gagnebet e del francescano P. Bonnefoy. Così, se nel 1927 Chenu riteneva che un certo linguaggio di S. Tommaso (che manteneva termini come Sacra pagina ecc.) fosse arretrato e non corrispondente rispetto al nuovo metodo introdotto, ora non lo riteneva più arretrato bensì elemento equilibratore e recupero della teologalità rispetto alla scienza come tale.
Dopo la seconda guerra mondiale Chenu fu chiamato ad insegnare alla Sorbona. Sempre coinvolto nei problemi del presente, il frate domenicano fu a fianco dei cosiddetti preti operai e di quei preti che seguivano le vicende sociali. Ma, dato che, non di rado queste iniziative sociali si realizzavano in ambienti di sinistra, Chenu venne accusato di simpatizzare per il marxismo. Come punizione le autorità religiose gli imposero di lasciare Parigi e trasferirsi a Le Havre. Intanto però questo contatto diretto col mondo del lavoro lo portò ad elaborare una “teologia del lavoro”, che rappresenta uno dei primi tentativi in tal senso: Col pretesto di salvare la dignità dello spirito e la sua purezza interiore [il mondo cattolico ] è finito nel più scipito liberalismo borghese, perversione aristocratica della libertà, scacco mortale per i principi di fratellanza[3]. Invece, il lavoro va visto nella sua finalità, come partecipazione e cooperazione alla crescita del bene comune. Nel momento in cui l’uomo ne prende consapevolezza, viene ad interferire nella dialettica tra libertà e determinismi della materia. Questa partecipazione al bene comune assume quindi il carattere di una espansione divina nel mondo. Una teologia del lavoro questa che prelude ad una critica alla teologia tradizionale che guarda tutto dall’alto. Ed ecco il compito del magistero della Chiesa:
Portare i suoi fedeli ad inserirsi nella storia della salvezza, impegnandosi nella storia della liberazione degli uomini. Il rapporto fra liberazione e salvezza non ha senso se non storicamente situato. In altri termini la liberazione totale e definitiva del Cristo si concretizza sempre attraverso liberazioni storiche parziali. Così bisogna rifiutare una teologia astratta che prenda in considerazione soltanto la condizione permanente dell’umanità, nelle sue speranze come nella sua miseria. Questo tipo di teologia ha spesso servito da garanzia ideologica a coloro che, dal momento che detenevano il potere economico e politico, cercavano di mantenere lo status quo[4].
L’attenzione verso la teologia del lavoro e verso il sociale non significava però un abbandono degli studi tomistici e scolastici, come dimostrano l’Introduzione allo studio di S. Tommaso d’Aquino (1950), e La teologia nel XII secolo (1957). Durante il concilio Vaticano II diede un apporto notevole ai documenti conciliari e soprattutto alla Gaudium et spes. Nel 1964 pubblicava due opere che esprimono bene i due momenti della sua riflessione: La parola di Dio. La fede nell’intelligenza, e Il Vangelo nel tempo. Infatti questa è la caratteristica del pensiero di Chenu: mentre teorizza cerca la maniera di incarnare nella vita quei principi teorici, e mentre si occupa di realtà sociali (come ad esempio Per una teologia del lavoro, 1955) rinvia ai fondamenti teorici di determinate scelte. In tal senso egli è conscio della differenza fra Parola di Dio e Teologia, tanto sottolineata da Karl Barth, ma è al contempo convinto che l’incarnazione (la Parola divenuta carne) getti la base per un ponte fra queste due realtà. Anzi, l’incarnazione della Parola spinge ad evitare un’eccessiva teorizzazione e a non concepire la teologia come un semplice concatenamento di concetti. Essa è il Vangelo che deve incarnarsi nel tempo. Ed in questo tempo la liberazione dell’uomo si attua attraverso la socializzazione ed il lavoro: Dio non ha creato un universo finito in tutti i particolari, nel quale l’uomo si troverebbe come uno spirito angelico dinanzi ad una materia eterogenea (…). Dio ha chiamato l’uomo ad essere suo cooperatore nell’organizzazione progressiva dell’universo, del quale egli deve essere in tal modo, lui, immagine di Dio, il demiurgo e la coscienza[5].
In questa linea è stato il suo principale apporto al concilio Vaticano II, l’insistenza cioè sul nesso fra teologia e missione nel mondo, fra la Parola di Dio e la sua incarnazione nella realtà umana di oggi. Ed in un certo senso ciò corrispondeva all’intento di Giovanni XXIII. Più che una riflessione teologica, quella del concilio è stata una riflessione pastorale per studiare come la Chiesa deve essere presente nel mondo di oggi[6].
Chenu va oltre. Tale pastorale ecclesiale è vista nel rispetto della natura delle cose. In altri termini non bisogna rattristarsi per questa accentuata secolarizzazione. Bisogna accettare che le realtà umane camminino e facciano il loro corso. Perché le leggi interne a queste realtà rispondono proprio al progetto divino della creazione, a quella consecratio mundi che molti intendono come clericalizzazione e che invece va nella linea dell’autonomia di queste realtà in continuo sviluppo.
In tutto questo, come giustamente osserva il Congar, P. Chenu ha indicato la strada, senza percorrerla tutta personalmente. E’ l’uomo delle grandi intuizioni: Ci sarebbe piaciuto che egli affrontasse un’opera storico analitica della società di tipo monografico, oppure ad una ricerca antropologica condotta più sistematicamente: l’uomo nel tempo, l’uomo sociale. In tal modo egli ci avrebbe lasciato un magnifico studio. Ma il guaio di noi Padri-Predicatori è che finito l’insegnamento siamo presi da mille sollecitudini apostoliche spesso urgenti, per cui ci esauriamo dispersivamente in molteplici prestazioni. E’ la legge dell’esistenza apostolica. Docili al comando delle circostanze e agli appelli degli uomini, ci è quasi impossibile continuare un’opera intellettuale di ampio respiro. Ma se la fecondità nasce dai problemi degli uomini, se “fare della teologia vuol dire essere presenti al dato rivelato nella vita della Chiesa e nell’esperienza attuale della cristianità”, questo servizio dispersivo e tecnicamente meno compiuto degli uomini in ordine al Cristo, rimane un’opera di autentica teologia[7].
Il passare degli anni, come potei constatare personalmente durante un breve soggiorno a Le Saulchoir, non scalfì minimamente la vivacità e l’entusiasmo, e direi la modernità del suo pensiero. Fino al momento in cui a Parigi si spense l’11 febbraio 1990.
Nato a Soisy sur Seine il 7 gennaio 1895, Marcel Leon Chenu entrò nell’Ordine domenicano nel 1913 prendendo il nome di Marie Dominique. Frequentò gli studi teologici all’Angelicum di Roma, ove ebbe tra i professori il P. Reginaldo Garrigou Lagrange. Già l’anno del suo dottorato (1920) fu chiamato ad insegnare Storia delle dottrine cristiane a Le Saulchoir (Belgio), dove era stato appena fondato l’Istituto Storico di studi tomistici.
Nel 1927 usciva un suo impegnato articolo, sia pure caratterizzato da entusiasmo giovanile: La teologia come scienza nel XIII secolo. Ivi sosteneva che il metodo scolastico era caratterizzato da notevole rigore, rinviando continuamente alle fonti menzionate o chiaramente riportate nei testi teologici. Grande anche la fiducia nella ragione naturale, come quella che aveva nutrito lo stesso S. Tommaso, che più d’ogni altro si era liberato dal peso e dal freno della sacra pagina. Nelle Somme dei domenicani inglesi Richard Fishacre e Robert Kilwardby, a dispetto dell’aristotelismo filosofico, si nota una forte reticenza ad applicarlo anche alla teologia. Più presente la razionalità nel metodo teologico di Rolando da Cremona.
In questo articolo del 1927 Chenu voleva dimostrare che S. Tommaso è stato il primo ad applicare i principi scientifici della demonstratio aristotelica alla teologia. Anche altri, come Anselmo e Abelardo, avevano intrapreso questo cammino, ma solo con S. Tommaso l’opera viene portata a compimento.
In questo avvio teologico, Chenu subiva l’influsso specialmente di P. Mandonnet, esperto di teologia medioevale e fortemente sensibile alla contrapposizione fra agostinismo e tomismo. Di conseguenza, egli operava una presa di distanza dalle posizioni dell’altro teologo che insegnava allora a Le Saulchoir, Ambrogio Gardeil, che proprio in quello stesso anno aveva pubblicato l’opera sua più impegnativa, La struttura dell’anima e l’esperienza mistica. Lungi dal contrapporre agostinismo e tomismo, il Gardeil aveva in quest’opera utilizzato entrambi per dimostrare come l’anima nella sua esperienza mistica entra in contatto diretto con la Trinità, allo stesso modo in cui l’anima entra in contatto con sé stessa nell’autocoscienza sperimentale.
Come si evince da altri due scritti, Posizione della teologia (1935) e Una scuola di teologia . Le Saulchoir (1937), dopo il 1927 Chenu rielaborò il suo pensiero moderando e modificando le posizioni precedenti. La nuova visione sull’agostinismo fu provocata forse dalla lettura prima della suddetta opera del Gardeil e poi di un volume di E. Gilson su S. Agostino nel 1929. Prima però che potesse esporre organicamente tale sviluppo di pensiero, un certo scalpore fece la sua tesi di fondo di Una scuola di teologia, tesi che dal Congar venne esposta in questi termini: Con P. Chenu e sulle sue orme, noi credevamo alla teologia ed eravamo convinti ch’essa avesse ancora qualcosa da dire agli uomini d’oggi, a condizione che non si limitasse a ripetere le formule di una volta e sapesse cercare una risposta ai problemi del tempo[2] .
Dovette essere proprio la svolta filoagostiniana insieme alla tesi sulla necessità dell’aggiornamento del linguaggio teologico a giocare un brutto scherzo allo Chenu. Egli che nel 1927 aveva addirittura usato il termine “razionalismo” per sottolineare la centralità della ragione in S. Tommaso, veniva ora visto come un teologo che non apprezzava sufficientemente l’autonomia della filosofia e della ragione.
Secondo il Donneaud, dunque, la sua evoluzione teologica potrebbe essere stata causata anche dalle critiche degli ambienti ecclesiastici. A partire dal 1938 infatti Chenu sapeva che a Roma si avevano dei sospetti sull’ortodossia della sua concezione teologica. Gli veniva rimproverato di relativizzare la dottrina di S. Tommaso e di indebolire la certezza intellettuale dei dogmi e del sistema teologico. Convocato a Roma nel 1938, dovette sottoscrivere un formulario di 10 proposizioni. E come se non bastasse nel gennaio del 1939 il maestro generale Gillet gli sottopose altre cinque proposizioni. Proprio quando stava per pubblicare la seconda edizione de La teologia come scienza nel XIII secolo, ecco che nel febbraio 1942 finiva all’Indice la sua Une école de théologie, e a Le Saulchoir arrivava il visitatore canonico Thomas Fhilippe.
Sull’Osservatore romano del 9 febbraio 1942 a firma di mgr Parente si affermava che il P. Chenu porta discredito alla teologia scolastica, al suo carattere speculativo, al suo metodo, al valore delle conclusioni che essa tira dal dato rivelato. E tale discredito ricade su S. Tommaso.
Nell’edizione del 1943 La teologia come scienza nel XIII secolo passava dalla forma dell’articolo ad un volume di circa 120 pagine. Ma non cambiava solo la forma. Anche il contenuto subiva notevoli variazioni. Ad esempio, l’agostinismo non è visto più come fattore di conservazione, ma piuttosto di salvaguardia della teologalità della sacra doctrina (il teologo non procede solo a deduzioni e argomentazioni, ma vive anche la verità di fede). Di conseguenza prende le distanze dal P. Mandonnet, che contrapponeva tomismo e agostinismo, per dire che Tommaso ha portato a compimento le migliori esigenze dell’agostinismo.
Questo aspetto viene confermato anche dalla “Teoria della subalternazione”, che indica come fine della teologia non sia quello di trarre delle conclusioni valide, bensì di “conoscere Dio così come si è rivelato a noi”. Allontanandosi dunque dal Mandonnet, Chenu si avvicinava così alle più moderate posizioni del domenicano P. Gagnebet e del francescano P. Bonnefoy. Così, se nel 1927 Chenu riteneva che un certo linguaggio di S. Tommaso (che manteneva termini come Sacra pagina ecc.) fosse arretrato e non corrispondente rispetto al nuovo metodo introdotto, ora non lo riteneva più arretrato bensì elemento equilibratore e recupero della teologalità rispetto alla scienza come tale.
Dopo la seconda guerra mondiale Chenu fu chiamato ad insegnare alla Sorbona. Sempre coinvolto nei problemi del presente, il frate domenicano fu a fianco dei cosiddetti preti operai e di quei preti che seguivano le vicende sociali. Ma, dato che, non di rado queste iniziative sociali si realizzavano in ambienti di sinistra, Chenu venne accusato di simpatizzare per il marxismo. Come punizione le autorità religiose gli imposero di lasciare Parigi e trasferirsi a Le Havre. Intanto però questo contatto diretto col mondo del lavoro lo portò ad elaborare una “teologia del lavoro”, che rappresenta uno dei primi tentativi in tal senso: Col pretesto di salvare la dignità dello spirito e la sua purezza interiore [il mondo cattolico ] è finito nel più scipito liberalismo borghese, perversione aristocratica della libertà, scacco mortale per i principi di fratellanza[3]. Invece, il lavoro va visto nella sua finalità, come partecipazione e cooperazione alla crescita del bene comune. Nel momento in cui l’uomo ne prende consapevolezza, viene ad interferire nella dialettica tra libertà e determinismi della materia. Questa partecipazione al bene comune assume quindi il carattere di una espansione divina nel mondo. Una teologia del lavoro questa che prelude ad una critica alla teologia tradizionale che guarda tutto dall’alto. Ed ecco il compito del magistero della Chiesa:
Portare i suoi fedeli ad inserirsi nella storia della salvezza, impegnandosi nella storia della liberazione degli uomini. Il rapporto fra liberazione e salvezza non ha senso se non storicamente situato. In altri termini la liberazione totale e definitiva del Cristo si concretizza sempre attraverso liberazioni storiche parziali. Così bisogna rifiutare una teologia astratta che prenda in considerazione soltanto la condizione permanente dell’umanità, nelle sue speranze come nella sua miseria. Questo tipo di teologia ha spesso servito da garanzia ideologica a coloro che, dal momento che detenevano il potere economico e politico, cercavano di mantenere lo status quo[4].
L’attenzione verso la teologia del lavoro e verso il sociale non significava però un abbandono degli studi tomistici e scolastici, come dimostrano l’Introduzione allo studio di S. Tommaso d’Aquino (1950), e La teologia nel XII secolo (1957). Durante il concilio Vaticano II diede un apporto notevole ai documenti conciliari e soprattutto alla Gaudium et spes. Nel 1964 pubblicava due opere che esprimono bene i due momenti della sua riflessione: La parola di Dio. La fede nell’intelligenza, e Il Vangelo nel tempo. Infatti questa è la caratteristica del pensiero di Chenu: mentre teorizza cerca la maniera di incarnare nella vita quei principi teorici, e mentre si occupa di realtà sociali (come ad esempio Per una teologia del lavoro, 1955) rinvia ai fondamenti teorici di determinate scelte. In tal senso egli è conscio della differenza fra Parola di Dio e Teologia, tanto sottolineata da Karl Barth, ma è al contempo convinto che l’incarnazione (la Parola divenuta carne) getti la base per un ponte fra queste due realtà. Anzi, l’incarnazione della Parola spinge ad evitare un’eccessiva teorizzazione e a non concepire la teologia come un semplice concatenamento di concetti. Essa è il Vangelo che deve incarnarsi nel tempo. Ed in questo tempo la liberazione dell’uomo si attua attraverso la socializzazione ed il lavoro: Dio non ha creato un universo finito in tutti i particolari, nel quale l’uomo si troverebbe come uno spirito angelico dinanzi ad una materia eterogenea (…). Dio ha chiamato l’uomo ad essere suo cooperatore nell’organizzazione progressiva dell’universo, del quale egli deve essere in tal modo, lui, immagine di Dio, il demiurgo e la coscienza[5].
In questa linea è stato il suo principale apporto al concilio Vaticano II, l’insistenza cioè sul nesso fra teologia e missione nel mondo, fra la Parola di Dio e la sua incarnazione nella realtà umana di oggi. Ed in un certo senso ciò corrispondeva all’intento di Giovanni XXIII. Più che una riflessione teologica, quella del concilio è stata una riflessione pastorale per studiare come la Chiesa deve essere presente nel mondo di oggi[6].
Chenu va oltre. Tale pastorale ecclesiale è vista nel rispetto della natura delle cose. In altri termini non bisogna rattristarsi per questa accentuata secolarizzazione. Bisogna accettare che le realtà umane camminino e facciano il loro corso. Perché le leggi interne a queste realtà rispondono proprio al progetto divino della creazione, a quella consecratio mundi che molti intendono come clericalizzazione e che invece va nella linea dell’autonomia di queste realtà in continuo sviluppo.
In tutto questo, come giustamente osserva il Congar, P. Chenu ha indicato la strada, senza percorrerla tutta personalmente. E’ l’uomo delle grandi intuizioni: Ci sarebbe piaciuto che egli affrontasse un’opera storico analitica della società di tipo monografico, oppure ad una ricerca antropologica condotta più sistematicamente: l’uomo nel tempo, l’uomo sociale. In tal modo egli ci avrebbe lasciato un magnifico studio. Ma il guaio di noi Padri-Predicatori è che finito l’insegnamento siamo presi da mille sollecitudini apostoliche spesso urgenti, per cui ci esauriamo dispersivamente in molteplici prestazioni. E’ la legge dell’esistenza apostolica. Docili al comando delle circostanze e agli appelli degli uomini, ci è quasi impossibile continuare un’opera intellettuale di ampio respiro. Ma se la fecondità nasce dai problemi degli uomini, se “fare della teologia vuol dire essere presenti al dato rivelato nella vita della Chiesa e nell’esperienza attuale della cristianità”, questo servizio dispersivo e tecnicamente meno compiuto degli uomini in ordine al Cristo, rimane un’opera di autentica teologia[7].
Il passare degli anni, come potei constatare personalmente durante un breve soggiorno a Le Saulchoir, non scalfì minimamente la vivacità e l’entusiasmo, e direi la modernità del suo pensiero. Fino al momento in cui a Parigi si spense l’11 febbraio 1990.
[1] Cfr. Henry Donneaud o.p., Histoire d’une histoire. M.-D. Chenu et « La Théologie comme science au XIII siècle », in Mémoire Dominicaine, n. 4, Printemps 1994, pp. 139-175 ; O. De la Brosse, Le père Chenu : la liberté dans la foi, Paris 1969 ; Y. Congar, Marie Dominique Chenu, in R. Van Der Gucht – H. Vorgrimler (a cura di), Bilancio della teologia del XX secolo, Città Nuova, Roma 1972, IV, pp. 103-122; Battista Mondin, I grandi teologi del secolo XX, I, Torino 1972, pp. 157-194; G. M. Salvati, Chenu Marie Dominique, in Lexicon. Dizionario dei Teologi dal I secolo ad oggi, Piemme, Casale M. 1998, pp. 298-301. Vedi anche la Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques, tome 75, n. 3, luglio 1991 ; ASOP, a. 98 , 1990, pp. 169-182 ; ASOP, a. 99, 1991, pp. 325-332.
[2] Bilancio della teologia del XX secolo, IV, p. 105.
[3] Per una teologia del lavoro, Borla Torino 1964, p. 13. La prima edizione (Pour une théologie du travail) è del 1955, ma già nel maggio del 1954 (in piena atmosfera di accuse) ebbe l’imprimatur dei P. Szchurezki e J. Isaac, nonché del vicario generale E. Mc Dermott.
[4] La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Queriniana , Brescia 1977, pp. 50-51.
[5] L’Eglise dans le Temps, II, p. 554,; cfr. Bilancio, IV, 117.
[6] Parole et mission, aprile 1963, pp. 182-202; L’Eglise dans le temps, II, pp. 655-672).
[7] Bilancio, IV, 119.
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Tel +39 081.89.99.111 - Fax +39 081.89.99.314 - Mail: info@domenicani.net
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