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tommaso campanella
di P. Gerardo Cioffari OP
Il XVII secolo è un secolo di grande creatività nell’Ordine domenicano. Mentre i maestri generali esortavano insistentementei frati ad incrementare le osservanze regolari, spesso strumenti inconsci di politiche di questo o quel cardinale, nell’Ordine, questi riuscivano ad esprimere la loro creatività sia nel campo della santità che della cultura. A seconda del proprio interesse si potrebbe mettere in rilievo questo o quell’aspetto. E’ sembrato però opportuno soffermare l’attenzione su figure come Martino de Porres e Rosa da Lima, santi emblematici dell’America latina. Dal punto di vista intellettuale però forse il personaggio più rappresentativo è il filosofo calabrese fra Tommaso Campanella, impetuoso come Giordano Bruno, figura avvincente di filosofo, mago e profeta, avversario di Aristotele e sognatore di una vita secondo natura in linea col comunismo platonico, nonché di grandi conversioni al Cristianesimo grazie alle missioni domenicane. Una figura legata fra l’altro anche al famoso processo a Galileo, avendo egli preso le distanze da una ingiustificata condanna, nella quale però i domenicani tennero atteggiamenti tutt’altro che unanimi.La presenza domenicana in Europa, come nell’America latina, nonostante le pressanti insistenze dei maestri generali e dei loro commissari in senso interiori stico, fu molto incisiva sul piano sociale.
Anche per la particolare struttura dei conventi, fortemente popolati di laici che vi lavoravano in casa ed in campagna, i frati si coinvolsero appieno nella vita delle povere popolazioni. Tirati da una parte dai baroni, che vedevano nel convento una garanzia per tenere buoni i contadini e gli artigiani, dall’altra dai superiori che vedevano male quel coinvolgimento, in realtà i frati furono in maggioranza poco inclini a lasciarsi imbavagliare, e lottarono con e per il popolo.
Molti storici laici identificano l’attività dei domenicani con l’Inquisizione e col tentativo della Chiesa di mantenere poteri e privilegi mediante la sollecitudine per l’ortodossia dogmatica. La storia ecclesiastica vede quasi soltanto il succedersi di uomini spirituali, santi e beati, nonché di figure impegnate nella fedeltà alla philosophia perennis di S. Tommaso o nella diffusione del santo rosario. In alcune circostanze hanno ragione gli uni, in altre gli altri. I frati, infatti, poco inclini a mettere in pratica le direttive spirituali dei superiori, riuscivano ad interpretare le istanze delle popolazioni in mezzo alle quali vivevano, con iniziative socialmente utili. La bontà dell’opera dei frati trova, ad esempio, una diffusa concretizzazione nell’istituzione delle spezierìe. In realtà nelle costituzioni domenicane e nelle disposizioni dei capitoli generali non si trova esplicitamente la speziarìa aperta al pubblico, ma solo la infirmarìa dei frati. I documenti ufficiali dei frati sono infatti restii a parlare del rapporto dei frati ad extra, nel timore che i frati trovassero espedienti per stare sempre fuori convento. Nella realtà concreta dei conventi, invece, queste infirmarìe divenivano delle vere e proprie farmacie pubbliche. Un discorso analogo si può fare per altri aspetti della vita sociale, come ad esempio le scuole che, pur nascendo ugualmente per fini conventuali, finivano poi per essere un servizio reso al pubblico.
- L’Ordine nel XVII secolo. Il caso Ridolfi
Il maestro generale Ippolito Beccaria, promotore di una (non riuscita) svolta autoritaria nell’Ordine, era morto a Napoli nel 1600, e a succedergli fu eletto nel 1601 fra Girolamo Xavierre (1601-1607), della provincia di Aragona. Provenendo anch’egli dalle file degli osservanti, volle come socio Marco Maffei da Marcianise, l’anima della riforma nel Regno di Napoli. Ma dopo il capitolo di Valladolid (1605) rimase in Spagna, impegnato soprattutto nelle questioni relative alla controversia de auxiliis. Non potendo quindi occuparsi direttamente delle vicende dell’Ordine, lasciò il governo al vicario fra Ludovico Ystella.
Gli successe poi Agostino Galamini (1608-1612), che ben esprime il difficile momento dell’Ordine dal punto di vista delle libertà. Al capitolo elettivo, mentre Francia e Spagna cercavano di fare eleggere un loro rappresentante, il papa si inserì abilmente facendo eleggere un italiano. Nonostante la sua elezione fosse il risultato di un compromesso, il suo governo fu abbastanza discreto, anche perché si impegnò a visitare personalmente molte province e presiedette l’importante capitolo parigino del 1611. Come per il suo predecessore, non fu la morte a porre fine al suo ufficio, ma la sua elevazione al cardinalato.
Decisamente più lungo fu il governo di fra Serafino Secchi (1612-1628), il quale, se da un lato continuò a promuovere l’osservanza, dall’altro volle cogliere le opportunità che la Congregazione di Propaganda Fide stava prospettando. Infatti, non mancò di suscitare nei frati il desiderio di partire in missione per la conversione degli infedeli. Dopo il capitolo del 1618 fece ristampare il libro delle Costituzioni, aggiungendovi le dichiarazioni dei capitoli generali degli ultimi 50 anni.
Il nuovo maestro generale Nicolò Ridolfi (1629-1644), appartenente a nobile famiglia fiorentina, fu al centro di un caso che fece scalpore. Come Muñoz de Zamora (XIII secolo) e Marziale Auribelli (XV secolo), fu deposto d’autorità dal papa.
I suoi metodi energici per portare a compimento i progetti di riforma gli suscitarono non pochi nemici fra i conventuali. Ed anche il suo atteggiamento nei confronti del Campanella richiama alquanto quello del Torriani verso il Savonarola e quello del Beccaria con Giordano Bruno. In altri termini, l’impegno nell’affermare i principi religiosi era tale da arrivare a sottoporre i confratelli a tortura fino a toglier loro la vita. Pare che politicamente fosse favorevole alla Spagna e che avesse espresso qualche critica sul nepotismo di papa Urbano VIII. Che il papa fosse scontento di lui si notò già nel 1632 quando, approfittando del fatto che il Ridolfi era assente in visita ai conventi in Francia, nominò suo vicario fra Vincenzo Maculano, che in quel momento era procuratore dell’Ordine. E il Maculano, sapendo che il Ridolfi non godeva delle simpatie del papa, si mosse prendendo iniziative di competenza del maestro generale.
A proposito della deposizione del Ridolfi, ancora oggi vengono proposte varie spiegazioni. Uno storico domenicano di fine Settecento parla di occultis de causis, in eum concepto odio, inanibusque in speciem, per concitatos in eum fratres Thomam Catoni et Dominicum Elisium, aggiungendo che il papa agì dietro pressione dei frati francesi, suscitando la protesta degli spagnoli, tedeschi e lombardi [1]. Insieme a questa causa, per così dire politica, non va sottovalutata però la motivazione psicologica: la permalosità di Urbano VIII che, pur aperto di mente era però poco tollerante verso chi criticava il suo nepotismo, o chi si permetteva di prenderlo in giro (come dimostra il caso di Galileo).
La vicenda della deposizione di Ridolfi è molto complessa, in quanto si intersecano motivazioni di diverso tipo, dalla diplomazia politica alla concezione intorno alla vita religiosa, dall’intervento pontificio nel governo domenicano alla di permalosità e superstizione del pontefice. Un po’ di luce la getta una lettera che il Campanella inviò nel 1635 ad Urbano VIII. Anche se decisamente di parte, questa lettera fuga molti dubbi sulle cause della deposizione:
Ad Urbano VIII. Santissimo Padre. Baciati i santi piedi e ringraziandola della continuazion del favore (...) li vengo ad avvisare stimolato dalle nove persecuzioni che qui mi fa il padre Ridolfi generale, non senza providenza divina, perch’io non taccia più il gran mal che egli fa alla religione ed all’onor di vostra Beatitudine, e ch’ordisce in futuro a casa Barberina, a molti noto, chi temono dirlo.
Non li basta quel che mi fece in Roma, quando mi vide in grazia di vostra Beatitudine, e dubitò ch’io fossi inalzato da vostra Beatitudine a quel grado ch’esso aspetta di cardinalato e di papato, come udirà appresso, onde cercò ogni via, per consulta di suo fratello, abbassarmi il credito ed astraermi dalla conversazion di Vostra Beatitudine, seminando per tutto ch’era vergogna ch’io trattassi con Vostra Beatitudine, e che si dicea che tratto di astrologia e peggio, e contra li Regno di Napoli. (...) E questo stesso ha seminato in Francia, sin alle orecchie del Re, ed ha scritto al padre Carréo, sua spia, che mi facesse questo mal ufficio, il qual mi lacera per tutto; e mi mandò a dire col mio priore ed altri frati, che non cesserà di subissarmi, solo perché ho detto ch’il generale è d’animo spagnolo e non francese.
E pur io non ho ancora detto ciò a questi signori. Ma lui si immagina da quel che ho scoverto di lui in Roma nei monopolii fatti con Borgia e con l’ambasciatori; e dalle persecuzioni chi mi ha ordito con li spagnoli in Napoli. (...) Quando nel dicembre del 33 Vostra Beatitudine stette indisposto, lui con Borgia ed altri fecero di notte il novo papa. Ci intervenne Ubaldino. Io lo seppi da Giovanni Battista Fabi, e questo dal Ranuccini suo nipote. (...).
E per confermazione può vedere Vostra Beatitudine una lettera venuta da Bologna al padre Firenzola di cose nefande ch’ha fatto il generale... come fa tutto per violenza contra le nostre leggi, fingendo aver l’oraculo di Vostra Beatitudine in omnibus. ... [Questa lettera] la vide il signor contestabile; e dicea fosser per obedienza da Vostra Santità sopra ciò esaminati il Candido e ‘l Bartoli e li più buoni padri della Minerva che lo conoscon ab initio: come perseguita tutti buoni non aderenti a lui e permette a’ suoi satelliti tutte le sceleraggini, come modernamente fé ai Cianti, al Silvestro ed a Flatino e maestro Donati ed a Fra Latino Pagani, con scandalo publico e murmore di tutti frati. (...) ed avea fatto dui regenti spagnoli alla Minerva, e dui altri in Napoli in San Tomaso d’Aquino ed un regente a San Domenico di Napoli, spagnolo di ventisette anni con la zazzara come femina, alla barba di quattro o cinque maestri vecchi e dottissimi. (...) E perché questo non bastava, fece per breve apostolico provincial in Napoli il padre Ignazio Ciantes spagnolizante, ad istanza del cardinal Borgia, ... perché questo Ciantes trattasse sempre col viceré com’ha fatto, e rubbasse per tutti... strumento di tanti suoi misfatti. (...) Santissimo Padre, Confiteor Deo, quando io ero carcerato per il Palazzo del Santo Offizio, il Ridolfi, essendo maestro del Sacro Palazzo, mi visitava spesso, solo per l’astrologia ... . Io li dissi che al 29 in giugno potea esser cardinale, e non fu; ma fu fatto generale per la morte dell’antecessore.
Non mai nella religione di S. Domenico s’è trovato questo nome d’erario ch’ha fatto lui; e manda commissari per le provincie che spogliassero i frati di quanti denari hanno in casa ed appo secolari: e questi commissari, sendo furbi, tolsero li denari tutti ed anche quelli che teneano i frati in deposito commune, secondo le nostre leggi concedono. Talché solo da Sicilia un frate Girardi – suo compagno olim, che poi s’è sfratato, - portò al generale quasi quattromila scudi tolti per forza.
Ma dei rubbamenti di tai suoi commissari è notorio in Ispagna; io vidi la lettera nelle mani del signor cardinale Colonna, mandatali da alcuni maestri spagnoli, che di queste rubbarie l’avvisavano e cercavan giustizia. (...) Di più fé, ad istanza di Borgia, provincial di Napoli il padre Ciantes, che subito si scoperse publico latrone. (...) Ed insieme col Ciantes mangiavano sempre caponi e delicatezze dei conventi, e li presenti di vini e caponi e zuccarami li vendeano.
Se Vostra Beatitudine non lo abbassa in modo che non possa più ascendere, li vostri nepoti si pentiranno. Non ho lena di copiare. Vostra Beatitudine s’informi da tutti e pensi che né anche i suoi non li son tanto fedeli quanto io servo vostro eterno, egreggio, leale [2].
Naturalmente, si tratta della vendetta di un perseguitato, contenente però accuse ben circostanziate e verificabili. Ma è anche la voce di tanti frati che non accettavano l’autoritarismo del maestro generale, né l’imposizione di una vita osservanziale (nel caso specifico sulla povertà) da parte di superiori che avevano ben altro da farsi perdonare che non la mancanza di spirito di preghiera o di povertà. Va detto però che non mancano studiosi che vedono il tutto in un’ottica che non è proprio quella del Campanella. Ad esempio, il P. Michele Miele, mettendosi dal punto di vista della vita religiosa di cui il Ridolfi era un promotore convinto, ritiene che le accuse del Campanella siano per lo più infondate[3]. E sulla stessa scia si muove il P. Eszer[4].
Il giudizio quindi cambia a seconda dell’angolazione da cui si vedono le cose. In ogni caso, con il nuovo pontefice il Ridolfi stava per essere rieletto generale. Tutto dipendeva, infatti, dall’elemento che acquistava maggior peso. E, certamente, l’interferenza pontificia, giustificata o meno, dava fastidio ai frati riuniti in capitolo generale, gelosi della loro libertà di scelta. In ogni caso, il papa credette al Campanella e al p. Lupo ed accettò il suggerimento di “fermare” il Ridolfi (Se Vostra Beatitudine non lo abbassa in modo che non possa più ascendere ...).
Dando credito alle accuse di un rivale del Ridolfi (il p. Lupo), il papa nel mese di aprile 1642 lo fece relegare nel convento di S. Sisto e poi in S. Pietro in Vincoli. Sul finire di quell’anno il capitolo di Genova, presieduto da Michele Mazzarino (fratello del famoso cardinale), deponeva il Ridolfi, trattenuto a Roma, ed eleggeva il Mazzarino. A quel punto molti frati si ribellarono. Gli spagnoli e i tedeschi riunirono un capitolo alternativo a Cornigliano Ligure ed elessero maestro generale fra Tommaso de Rocamora.
Intanto il papa aveva deposto definitivamente il Ridolfi, offrendogli in cambio un vescovado, che però quegli rifiutò. Per evitare poi che l’Ordine si spaccasse, Urbano VIII annullò entrambe le elezioni e, promuovendo a diverse cariche i due eletti, convocò un capitolo generalissimo per il 1644. A dire il vero, per qualche tempo il Mazzarino aveva fatto orecchio da mercante e, da S. Maria sopra Minerva, si atteggiava a maestro generale, ma dopo un perentorio richiamo rinunciò definitivamente. Era appena terminato il capitolo, ove era stato eletto fra Tommaso Turco (1644-1649), che morì Urbano VIII (29 luglio 1644) e gli successe Innocenzo X. Questi dispose la revisione del processo e il Ridolfi fu riabilitato. Mentre questi presiedeva il capitolo elettivo del 1650, con elevate probabilità di essere rieletto, ecco che pochi giorni prima dell’elezione il Ridolfi venne anch’egli a morte [5].
Pare che prima di morire il Ridolfi facesse il nome del futuro maestro generale, certo è che fu eletto Giambattista de Marinis (1650-1669), già segretario dell’Indice per il papa Urbano VIII. Subito si mise all’opera, cominciando a visitare i conventi, ma dovette ben presto abbandonare gli altri progetti e concentrarsi sulla soppressione dei conventini, voluta da papa Innocenzo X. Successivamente dovette occuparsi delle controversie teologiche in cui erano coinvolti i domenicani, vale a dire il molinismo, il giansenismo, il probabilismo e la questione dei riti cinesi.
Fortunatamente per l’Ordine, dopo il De Marinis vennero alcuni maestri generali preoccupati più di ricomporre l’unità dell’Ordine che non di far vincere questa o quella corrente. Il catalano Giovanni Tommaso de Rocaberti (1670-1677) ebbe la gioia di notificare all’Ordine la canonizzazione di S. Rosa da Lima e di S. Ludovico Bertrando, nonché la beatificazione di S. Alberto Magno. Il suo successore, Antonio de Monroy (1677-1686), con la sua elezione sorprese un pò tutti. Era uno spagnolo, ma nato in Messico ed aveva soltanto 42 anni. Già nel Messico aveva dato prova di sapersi muovere sia nelle questioni culturali che in quelle relative alle missioni. E questo venire dalla “gavetta” gli permise di affrontare il grave compito con molto buon senso, rifiutandosi cioè di schierarsi per questo o quel partito, ma dandosi da fare affinché si ricostituisse l’unità spirituale dell’Ordine. Si dimise allorché fu creato arcivescovo di Compostella.
Un’impronta notevole lasciò nella storia dell’Ordine il governo del francese Antonino Cloche (1686-1720), il quale pur impegnandosi nel recupero delle antiche osservanze, in realtà diede una spinta in diversi campi. Come rileva giustamente lo storico domenicano Angelo Walz, ebbe a cuore sempre l’edizione dei libri liturgici e legislativi, la disposizione degli studi, l’incremento delle lettere, la corretta amministrazione della biblioteca casanatense, il modo di trattare i problemi in spirito ecclesiale, la glorificazione dei santi, la predicazione del verbo divino presso fedeli ed infedeli.
2. Tommaso Campanella, genio irrequieto
Il maggiore pensatore domenicano del XVII secolo è certamente il calabrese fra Tommaso Campanella [6], una figura che presenta non pochi tratti in comune con Giordano Bruno. Infatti, nelle storie della filosofia vengono spesso affiancati (“Bruno e Campanella”). Il calabrese però non ebbe i riconoscimenti internazionali del confratello, anche perché elaborò una teologia ed una filosofia in una cornice meno trasgressiva (specie per il linguaggio) e teologicamente più “ortodossa” di quella proposta dal Nolano [7].
Nato a Stilo (Calabria) nel 1568 ed entrato nell’Ordine domenicano, mostrò una certa insofferenza per l’indirizzo aristotelico predominante nelle scuole dell’Ordine. Critico di questa impostazione degli studi, preferì la lettura di testi di medicina, astrologia, magia e scienza. Studiava teologia a Cosenza quando si imbatté nel De rerum natura di Bernardino Telesio, la cui lettura lo entusiasmò per la sua tendenza al concreto verificabile in contrasto con l’astrattezza del metodo scolastico. Relegato dapprima nel convento di Altomonte, lasciò quel convento per Napoli sul finire del 1589. L’incontro con Giambattista della Porta a Napoli gli diede occasione di essere meno scettico verso l’astrologia, restando però sempre convinto (sulla scia di Tommaso ed Alberto Magno) che l’influsso degli astri può essere contrastato con la forza della volontà.
L’uscita nel 1591 del suo primo libro, Philosophia sensibus demonstrata, in cui già rilevava la sua indipendenza rispetto all’aristotelismo tomista, gli procurò un primo processo, sia pure interno all’Ordine. Fu infatti il capitolo conventuale di S. Domenico Maggiore (28 agosto 1592) a richiamarlo all’ortodossia tomista. Alla domanda di dove gli provenisse la sua scienza, avrebbe risposto: Io ho consumato più d’olio che voi di vino [8]. Liberato a condizione di rientrare in Calabria, si diresse verso la Toscana, quindi a Bologna, ove gli rubarono diversi manoscritti, e Padova, ove frequentò la facoltà di medicina. Fu qui che Galileo lo raggiunse, latore di una lettera del granduca di Toscana.
Sul finire del 1593 finì nelle carceri del Sant’Uffizio per non aver denunciato un ebreo convertito e rientrato nell’ebraismo. Qui potrebbe aver incontrato Giordano Bruno, ma nei suoi scritti si riscontrano solo pochi cenni al filosofo nolano. Nel 1595 fu liberato dopo un’umiliante cerimonia nella chiesa della Minerva e relegato nel convento di Santa Sabina ove scrisse il Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, che egli affidò all’inquisitore domenicano Alberto Tragagliolo.
Già in questi anni quindi cominciava a prendere l’atteggiamento del difensore della Cattolicità romana, facendo però ricorso ad argomentazioni poco tradizionali. Le accuse di un condannato a Napoli lo fecero finire per la terza volta in carcere nel marzo 1597. Fu liberato, sempre a condizione che tornasse in Calabria, cosa che fece l’anno dopo. Ma, l’atmosfera di malcontento verso il dominio spagnolo lo fece assurgere (quanto volontariamente è ancora una questione aperta) a capo carismatico di una congiura antispagnola in Calabria, la quale, scoperta, lo fece finire diritto nelle carceri napoletane (6 settembre 1599). Si metteva davvero male per lui, anche se il processo fu ritardato dalla lite giurisdizionale fra le autorità spagnole e l’Inquisizione romana (sul chi dovesse processarlo). Dato che le fiamme che due mesi prima avevano bruciato il corpo di Giordano Bruno non avevano ancora disperso i loro bagliori, Campanella preferì salvarsi la vita ricorrendo ad uno stratagemma giuridico. Uno dei capisaldi del diritto inquisitoriale era che lo scopo delle torture e della messa a morte era che il condannato potesse ricredersi e così salvarsi l’anima. Dato che il pazzo non era in condizione di convertirsi e quindi salvarsi, un’eventuale sentenza di morte era vista come una inutile crudeltà. Ben conoscendo questa norma, Campanella ai primi di aprile del 1600 cominciò a fingersi pazzo, o non rispondendo o rispondendo a sproposito, e fu così che ebbe salva la vita.
Straordinaria fu la sua resistenza agli atroci dolori causati dalle continue torture di questi primi anni. La crudeltà era tale da attirargli la simpatia degli aguzzini, che evitavano di riferire i suoi sfoghi verbali dopo aver superato le terribili torture, come quando uscendo si lasciò sfuggire: Si pensavano che io era coglione, che voleva parlare ! Per oltre sei mesi lottò tra la vita e la morte. Passato il pericolo, per alcuni anni ancora fu chiuso in un carcere duro. Riusciva però ad avere penna e carta per scrivere.
Per alleggerire la sua condizione scrisse allora la
Monarchia di Spagna, nella quale proponeva un mondo governato dal papa mediante la potenza militare della Spagna [9]. L’opera però non sortì l’effetto sperato venendo da tutti giudicata utopistica. Non a tutti poi piaceva essere governati dagli spagnoli, né questi volevano governare sotto la guida del papa. Nel luglio del 1604 da Castel Nuovo, per timore di una fuga, fu trasferito nella fossa del coccodrillo in Castel Sant’Elmo, un drammatico periodo da lui descritto in una lettera a mons. Antonio Querengo: già il petto e la testa son tanto offesi, che poco posso sperar salute, sendo stato quattro anni sotterra, con ferri sempre, sopra un fradicio e bagnato stramazzo, e con pane e acqua di tribulazione, senza veder mai cielo, né luce, né persona umana, in luoco sempre bagnato, che stilla d’ogni muro acqua continuamente, talché continua notte e inverno io sento [10].
Era ancora a regime di carcere duro quando compose la celebre Città del Sole, che ebbe notevole risonanza. Un rifacimento in italiano di un suo precedente testo latino (che gli era stato rubato a Bologna da “falsi frati”) fu invece Il senso delle cose e della magia, in cui esponeva la concezione di un mondo universalmente animato, una statua del Dio infinito, un’animazione che rende conto di attrazioni e repulsioni che stanno alla base dell’ordine cosmico. Con la magia l’uomo ha la possibilità di agire su questo mondo ricco di sensorialità [11].
Se la Monarchia di Spagna poté avere un’origine opportunistica, non così la Monarchia Messiae del 1605[12], che non faceva che riprendere un tema precedente (la Monarchia christianorum, composta nel 1593 e perduta). Il concetto di una entità sovrastatale fu infatti sempre molto presente nel Campanella, convinto come era che una comunicazione tra gli uomini a tutto campo non potesse che fare bene a tutti. Nel quadro della regalità di Cristo, dalla quale derivano la loro autorità i principi della terra, sarebbe opportuno che, in quanto vicario di Cristo in terra, fosse proprio il papa ad incarnare quell’autorità. La bontà di questo ruolo guida del papa si manifesterebbe sia sul piano internazionale, avendo egli il potere di riformare gli stati in modo che possano difendere l’ordine, la morale e la fede, sia sul piano della persona umana, che sotto di lui godrebbe di una libertà più ampia ed autentica.
Alcuni anni prima aveva messo mano ai 18 libri della Metafisica [13], in cui, assumendo un iniziale scetticismo, derivante dalla limitatezza della mente umana di fronte alla vastità dell’universo, giunge ad alcune certezze fondamentali: quella di esistere, di volere e di sapere. Approfondendo il rapporto fra l’io che conosce ed il mondo che è conosciuto si prende consapevolezza che tramite la conoscenza intellettiva ci si immedesima con l’oggetto: conoscere è essere (cognoscere est esse). Al di là del senso e della mente l’uomo possiede anche una superiore facoltà conoscitiva, la mente. Essa è lo strumento privilegiato col quale l’uomo supera la sua limitatezza per sfociare nell’infinito: chi conosce e ama Dio, diventa lo stesso Dio in quanto conosciuto e amato, sì da avere in sé quasi un sentore della divinità. Così, mentre da una parte il Campanella precorreva l’intuizione cartesiana del Cogito ergo sum, grazie ad un profondo senso dell’autocoscienza dell’io, dall’altra si congiungeva alla grande corrente mistico-patristica che parlava di deificazione (per grazia, non per natura), come del resto i suoi grandi confratelli Eckhart, Susone e Taulero e, confusamente, anche Giordano Bruno.
Col titolo di Ateismo debellato (Ateismus triumphatus) [14] nel 1630 l’editore Gaspare Scioppio pubblicava il suo scritto Riconoscimento filosofico della vera universale religione contro l’anticristianesimo e machiavellismo, scritto dal Campanella nel 1605. Ivi il domenicano, oltre che ad impegnarsi nel dimostrare la superiorità del cristianesimo, cerca anche di mostrare la sua praticabilità politica (in vista di un’equa distribuzione dei beni che eliminerebbe tante ingiustizie, fonti di disordini), senza cadere nell’amoralismo di Machiavelli.
Dal 1608 al 1614 la detenzione fu meno dolorosa, nel senso che poteva ricevere visite ed impartire lezioni. Dopo altri quattro anni di carcere duro (1614-1618) fu nuovamente trasferito a Castel Nuovo, dove gli fu data la possibilità di completare opere come il Quod reminiscentur (progetti per una migliore organizzazione delle missioni cattoliche e suo sogno ierocratico in cui i vari popoli seguono religiosamente il Sommo Pontefice come Pastore dell’unico ovile), l’Apologia pro Galileo, e la vasta Theologia.
Liberato il 23 maggio 1626, un mese dopo era tradotto nelle carceri del Sant’Uffizio a Roma. Dopo altri due anni il papa Urbano VIII lo faceva liberare, grazie ai commenti a certe sue poesie latine, nonché alla confutazione di astrologi che avevano predetto la morte dello stesso pontefice. La pace era però sempre lontana, poiché i superiori dell’Ordine (in particolare il maestro generale, Niccolò Ridolfi ed il maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi) lo tenevano sotto tiro e poco dopo anche gli spagnoli ripresero a dargli la caccia a causa di un complotto di fra Tommaso Pignatelli, suo ex allievo, contro il viceré. Dietro suggerimento del papa la notte del 21 ottobre 1634 prendeva la via della Francia, ove fu onorevolmente accolto sia dal Richelieu che dal re Luigi XIII. Morì nel convento domenicano di rue Saint-Honoré e delle sue ceneri non restò più nulla dopo che la furia rivoluzionaria nel 1795 imperversò anche sui cimiteri.
3. Atteggiamento dei frati verso il Campanella
Per quanto riguarda i rapporti del Campanella coi frati domenicani, c’è da dire che, in generale, la maggioranza di essi gli furono favorevoli e simpatizzarono con lui. Ostile, invece, a causa della diversa concezione della vita domenicana, gli fu fra Marco di Marcianise, capo carismatico della riforma nel napoletano. E ostile gli fu il romagnolo fra Giovanni Maria Guanzelli da Brisighella, maestro del Sacro Palazzo, che (con decreto del 7 agosto 1603) mise all’indice i libri di una ventina di autori eretici, fra cui appunto Giordano Bruno (Iordani Bruni Nolani libri et scripta omnino prohibentur) e Tommaso Campanella (Thomae Campanellae opera omnia omnino tolluntur). Un decreto che quattro anni dopo sarebbe stato pubblicato come Index expurgatorius, una specie di appendice all’Indice clementino del 1596 [15].
Fra gli uomini dell’istituzione e dell’inquisizione l’unico a lui favorevole fu fra Alberto Tragagliolo. Infatti, mentre fra Giovan Vincenzo Astoricense, procuratore e vicario generale, nel corso del terzo processo campanelliano (1593-1596), considerando la mancata resipiscenza del calabrese, deliberava il torqueatur (sia sottoposto a tortura), il Tragagliolo, commissario del Santo Uffizio, proponeva l’assoluzione [16]. Mentre moriva come vescovo di Termoli il 1 gennaio 1601, il Tragagliolo avrebbe mormorato: Mi dispiace ch’io moro e non ho liberato questi frati.
C’è un elemento indiretto che getta una certa luce sulla simpatia con cui la resistenza del Campanella veniva vista dai frati: è la fortuna del curriculum di un frate che abbiamo già incontrato a proposito di Giordano Bruno a Venezia. Trattasi di fra Serafino Rinaldi, del convento napoletano di S. Domenico Maggiore. Dell’amicizia di questo frate nei suoi confronti il Campanella parla due volte nel suo Syntagma. Una prima volta quando lo definisce curatoris mei amantissimi cui me ipsum quoque debeo [17], ed una seconda volta quando ricorda che, avendo scritto quattro discorsi in onore di S. Tommaso (De laudibus divi Thomae), il Rinaldi si preoccupò di farli leggere pubblicamente a Napoli [18]. Ben consapevoli di questi rapporti di amicizia col frate calabrese, i frati di S. Domenico Maggiore lo elessero prima priore del convento, quindi in capitolo lo elessero provinciale della Regni (1619-21), ben due volte reggente dello Studio generale, e lettore di S. Tommaso nello Studio pubblico. Ora, se Campanella fosse stato considerato negativamente dai frati della provincia, la carriera di fra Serafino Rinaldi (suo amico dichiarato) sarebbe stata ben lungi da simili successi.
Alquanto complesso è l’atteggiamento di fra Giovanni Battista da Polistena, provinciale di Calabria (1591-93), che nel 1592 raccomandava a Firenze fra Tommaso, scrivendo a Ferdinando I di Toscana (14.V.1592). Accusato ed incarcerato per aver partecipato all’uccisione del provinciale fra Pietro Ponzio, per allontanare da sé i sospetti, poco a poco il Polistena si avvicinò alla corrente riformata, cominciando ad esprimersi diversamente riguardo al Campanella.
Diversi frati domenicani emergono proprio in concomitanza con la famosa congiura. Tra il febbraio e l’aprile del 1599 Campanella tenne delle prediche nella chiesa di Stilo in cui si annunciavano dei rivolgimenti politici e sociali. L’accusa congiurare contro la Spagna fu rapida, e parecchi domenicani vicini al Campanella furono come lui messi sotto accusa.
Tutti i testimoni furono interrogati da fra Marco di Marcianise che, come leader della corrente riformata, era decisamente ostile sia a fra Dionisio, che conduceva una vita tutt’altro che osservanziale, che al Campanella, avendo quest’ultimo appoggiato nel 1595 a Roma (presso il card. Odoardo Farnese) la causa dei conventuali di S. Domenico Maggiore contro i riformati di fra Marco (provinciale dei Riformati). Anche fra Cornelio (lombardo) interrogò gli accusati, dopo però aver ricevuto denaro da alcuni frati nemici di fra Dionisio (cioè fra Vincenzo Rodinò e fra Alessandro da S. Giorgio) [19].
In generale, comunque, come i frati napoletani anche i calabresi erano favorevoli al Campanella. Ad esempio, nel 1625 il padre provinciale Ambrogio Cordova, a nome di tutti i frati, inoltrava istanza al re di Spagna affinché concedesse la libertà al confratello [20].
Decisamente ostili al Campanella si dimostrarono nell’ultimo decennio della sua vita gli uomini dell’istituzione ecclesiastica, come il maestro generale Niccolò Ridolfi e il maestro del sacro palazzo Niccolò Riccardi, soprannominato “il Mostro” (sul quale si tornerà a proposito di Galileo Galilei). Quest’ultimo, il Riccardi, era stato scelto come socio da Niccolò Ridolfi, allorché successe a Giacinto Petroni (1614-1623) come maestro del sacro Palazzo (1622-1629). Dato che questa scelta comportava l’allontanamento del socio precedente, il p. Lupo, la cosa provocò attriti e rancori. Anche se in questa prima fase il papa Urbano VIII manteneva con entrambi un buon rapporto, tanto che nel 1629, essendo stato eletto maestro generale il Ridolfi, nominava il Riccardi maestro del Sacro Palazzo.
Questi, nella seduta della Congregazione dell’Indice del 15 novembre 1629, distribuì tra i cardinali presenti gli Astrologicorum Libri, che in appendice avevano il libro settimo De fato siderali vitando. Dato che il papa aveva promulgato una bolla contro i libri di astrologia e di oroscopi, a causa del fatto che alcuni cardinali profetizzavano come prossima la sua morte, il Mostro pensava di mettere nei guai il Campanella, ma fu il papa stesso a salvarlo, suggerendo di inserire l’opera nell’Indice, dopo averla dichiarata apocrifa [21]. Il Campanella prese analoga iniziativa nell’aprile 1632, quando stava per essere pubblicato un nuovo Indice dei libri proibiti. Egli comunicava al P. Maddaleno Capoferri di inserire nell’Indice tutte le opere che sotto suo nome circolavano e che non erano state approvate a Roma. Egli le rinnegava o perché non sue o perché alterate [22].
Poco dopo il Campanella volle prendersi la rivincita contro il colpo basso infertogli dal maestro del Sacro Palazzo, analizzando un libretto del Riccardi sulle Litanie [23], scoprendovi e puntando il dito contro i tanti errori teologici. Sembrava Giordano Bruno redivivo che si faceva beffe delle Sette allegrezze della beatissima Vergine, e contro l’imperante devozionismo spicciolo. Tuttavia Campanella, che aveva un forte senso dell’amicizia, evitò di affondare i colpi (come avrebbe voluto) per rispetto verso il padre Acquanegra, il quale non si era prestato alle macchinazioni del maestro generale e del Mostro contro di lui. E dato che l’imprimatur l’aveva dato proprio il P. Acquanegra, egli si frenò alquanto nell’attacco [24].
Tra gli allievi del Campanella va annoverato fra Tommaso Pignatelli, che a Napoli montò una congiura per assassinare il viceré e provocare una sollevazione antispagnola. Scoperto e catturato, fu gettato in carcere e strangolato. Della cosa ovviamente fu accusato, specialmente dal maestro generale, il Campanella che, avvertito in tempo dal papa, fuggì in Francia.
A parte questi frati decisamente più passionali, in generale il dissenso domenicano fu favorevole al Campanella, e col tempo anche i moderati si azzardarono a manifestare la loro simpatia. Valga come esempio il giudizio espresso nella Relatio conventus Placanicae, del convento cioè dove il Campanella aveva emesso i primi voti religiosi: Velut lucerna desursum candelabrum posita, per omnes Ordinis partes, refulget Thomas ille qui haud immerito gaudere potest, tertij nomine; cumque adiunctum habuerit cognomen Campanellae, merito sonum eius admiratus est mundus. Floruit iste permaximus philosophus ac theologus magister anno 1640… Admirandam eius doctrinam commendant eius opera innumera.
4. Principi filosofici
Tommaso Campanella, come già Telesio e Bruno, venne ricordato da Francesco Bacone tra i novatores, nel senso di non attenersi all’autorità astratta di Aristotele, ma di battere i sentieri della scienza nuova, vale a dire dell’esperienza diretta, della libera indagine e della continua verifica sperimentale [25]. A suo avviso molto dannosa per la fede era la stretta connessione che veniva stabilita fra l’autorità della Sacra Scrittura e le scienze naturali. Il peggior servizio che si potesse fare alla fede era quello di allargarne indebitamente il campo. Di riflesso, però, ciò andava anche a discapito delle scienze, in quanto a motivo di supposte tesi “scientifiche” della Bibbia, si frenava la libera ricerca sperimentale. Invece, questi due modi del conoscere hanno oggetti e metodi diversi ed è quindi utile non confonderli, altrimenti la Scrittura diventa un impedimento al conoscere naturale, il che va a disonore della Chiesa. Ed è proprio per queste sue convinzioni che, pur non condividendo certe conclusioni del Galileo, ne difese coraggiosamente il diritto di ricerca. In una lettera a lui indirizzata così scriveva: Queste novità di verità antiche, di novi mondi, nove stelle, novi sistemi, nove nazioni etc. son principio di secol novo [26].
Tuttavia, anche a causa dei lunghi anni di carcere, tali principi non poterono essere applicati dal domenicano calabrese, che pertanto, nonostante il fascino che su di lui esercitava il metodo sperimentale, fu costretto a muoversi spesso nelle categorie tradizionali. Come Giordano Bruno, il Campanella visse nella fase di transizione fra Rinascimento ed età moderna. Era proiettato verso il futuro (l’amore per il libro della natura), ma le sue radici erano ancora nel Rinascimento (residui astrologici e magici).
Il Campanella aveva fatto tutti i suoi studi secondo il metodo scolastico dell’Ordine, il che gli diede una solida preparazione metodologica, ma allo stesso tempo era assetato di sapere ed il contenuto tomistico della scolastica non gli bastava. Aperto alle nuove istanze filosofiche, più che tornare direttamente a Platone, cominciò ad interessarsi alla natura secondo le modalità in cui lo avevano fatto o lo stavano facendo uomini come Tritemio, Paracelso, Cardano, Dee e, a Napoli, Giambattista della Porta. Un filone di pensiero che, recuperando i presocratici e non trascurando neppure la cabala ebraica, concepiva la natura come qualcosa di vivo col quale intessere un dialogo ed un rapporto vitale. Per cui, quando a Cosenza si imbatté nell’opera telesiana (De sensu rerum), avvertì la sintonia col suo pensiero e ne prese le difese.
Esiste a suo avviso una magia naturale ed una magia divina. La prima, che comprende anche gli influssi demoniaci sulla natura, dipende qunto alla sua efficacia dalle conoscenze esoteriche: est quidem magia naturalis ars practica, utens naturalium rerum virtutibus activis passivisque ad mirificos effectus insolitosque, quorum vulgo causa vel causandi modus ignoratur[27]. La seconda, la magia divina, è un atto gratuito di Dio, come accade ad esempio nei miracoli veri e propri. Infatti nel primo caso non si tratta di miracoli, bensì solo di manifestazioni inconsuete, che hanno l'apparenza del miracolo; si tratta solo di uno spostamento della successione dei fenomeni. In tale dominazione della natura non è però sufficiente la tecnica o la conoscenza sperimentale, è necesaria anche la conoscenza metafisica delle primalità affiancata alla percezione del legame profondo che esiste fra tutti gli esseri dell'universo. Nella divina invece c'è una vera e propria sospensione della legge naturale.
Il punto principale dell’aristotelismo rigettato dal Campanella era la necessità della materia e della forma per la costituzione dell’ente. Un principio su cui è basata gran parte della filosofia tomista e, conseguentemente, della teologia domenicana. Per il Campanella invece la materia è ugualmente atto (come la forma). L’ente-materia differisce dalla forma per il fatto che al suo interno interagiscono forze, come il caldo e il freddo, che fanno sì che l’ente materiale abbia una sensazione di sé e della propria destinazione. La conoscenza umana è proprio la ricerca sulla destinazione delle cose.
L’intelligere, per il Campanella, è l’io che nell’attualità perenne pensa a sé stesso essenzialmente e con notizia innata, pensa invece l’altro da sé come notitia illata. In altri termini, fra l’essere e l’intelligere c’è una unità profonda. Le cose non provocano il mettersi in azione del pensiero, ma fanno sì che l’ente diventi presente a sé stesso. E’ un po’ come se l’anima fosse una partecipazione di Dio che è in tutte le cose: Anima res potest scire quoniam eas habet in rationibus aeternis, quarum ipsa est particeps, dum Dei in se omnia continentis est particeps [28]. La differenza sta nel fatto che mentre Dio è attivo nel pensare le cose che senza di Lui non esisterebbero, l’uomo le pensa e specifica passivamente.
Nel momento in cui lo spirito avverte la sua limitatezza e si sente principiato, ha anche la chiara percezione di dipendere da un essere causante che non abbia quella limitatezza, avverte cioè distintamente l’esistenza di Dio. A tale esistenza però si può giungere non soltanto con questa notitia innata, ma anche con notitia illata, attraverso cioè l’ordine del mondo, la tensione verso l’infinito, la gerarchia delle perfezioni ed i fatti soprannaturali. Inaccettabile, invece è la prova dal moto di Aristotele e Tommaso, in quanto tale moto si riferisce solo al movimento meccanico e non ad ogni movimento.
L’impronta che Dio ha lasciato nelle cose si evidenzia attraverso la teoria delle primalità. Le Primalità, che sono la Potenza, la Sapienza e l’Amore, pervadono ogni ente comunicando la propria struttura trinitaria, il che vale in sommo grado per l’uomo.
Il mondo dunque tutto è senso e vita e anima e corpo, statua dell’Altissimo, fatta a sua gloria con potestà, senno e amore… Si fanno in lui tante morti e vite che servono alla sua gran vita. Muore in noi il pane, e si fa chilo, poi questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervo, ossa, spirito… Così a tutto il mondo tutte cose son gaudio e servono, e ogni cosa è fatta per lo tutto e il tutto per Dio… L’uomo è epilogo di tutto il Mondo [29].
Le primalità vanno ad essenziare l’ente; ne sono i suoi trascendentali metafisici. Così, mentre le primalità strutturano l’essenza divina in modo assolutamente innato, in rapporto all’uomo esse agiscono in modo illato. In altri termini Dio conosce le cose perché conosce sé stesso, mentre l’uomo per fare, conoscere e amare ha bisogno di proiettarsi fuori da sé. In particolare, rispetto alla prima primalità, Dio crea, cioè produce l’essere senza che abbia alcunché di previo; l’uomo non crea, ma “fa”, cioè produce e modifica a partire da qualcosa già esistente.
Ecco come l'Amerio sintetizza questi principi della metafisica campanelliana: Ogni ente è in quanto può essere, e conosce il suo essere, e ama il suo essere. Le tre primalità hanno tra loro un ordine di processione, L'amore procede dalla potenza e dalla sapienza, giacché ciò che è ignoto è impossibile ad amarsi, non è amato: esso è nella potenza e nella sapienza, dalle quali non potrebbe procedere, se queste già non lo avessero, e dalle quali adunque non recede, quando procede. La sapienza non è dall'amore, ma dalla sola potenza, giacché non sappiamo quel che non possiamosapere, ma pur sappiamo quel che non amiamo: essa è nella potenza, dalla quale non procederebbe, se questa non la avesse e dalla quale dunque non recede, quando procede. La potenza poi non proede da nessuna primalità [30].
Come si può vedere, Campanella scavalca la scolastica per riconnettersi direttamente a S. Agostino, secondo una teologia trinitaria che, sia pure indirettamente, implica la teoria del Filioque. In lui comunque l'attenzione principale è rivolta a Dio, alla sua natura e al suo modo di esistere. In questo, invece, egli si rifà allo pseudoDionigi. In quanto origine di tutto ciò che esiste, Dio non “esiste” (ex-sistere = essere da), in quanto dicimus existere quod extra suas causas est. Egli infatti non esiste, ma è[31].
Anche la creazione dovrebbe essere pensata in termini diversi. Le cose infatti non sono reali al di fuori dell'idea che le ha concepite, esse riflettono l'idea. Infatti, Dio pensando se stesso si pensa come partecipabile, e le idee non sono che questa partecipabilità. Tuttavia non tutte le idee possibili diventano poi concrete. Il che significa che le cose, se anche sono nell'essenza divina non sono l'essenza divina, in quanto in esse c'è un difetto di infinità. L'infinità delle cose finite è diversa da qulla di Dio. Certamente le cose sono innumerevoli e l'universo è composto di enti incredibilmente numerosi (e sarebbe pura presunzione escludere che esistano innumerevoli mondi ignoti all'uomo, che pure rendono gloria a Dio in diversi modi), tuttavia questa infinità è simile ma non identica a quella del Creatore[32].
Il sogno di una vita secondo natura, di una società in cui l’interesse personale lasci spazio al bene comune, portò il Campanella a mettere alquanto in ombra (o almeno così sembrò ai suoi contemporanei) i dogmi positivi del cristianesimo. Una essenzialità di vita evangelica che suscitò molte perplessità nei fautori di una dogmatica positiva tradizionale. Per dare un’impronta di spiritualità cristiana all’umanità intera, avanzò l’ipotesi di una guida del pontefice in un governo in cui la Spagna ne garantiva la sicurezza militare (più tardi sostituirà la Francia alla Spagna).
La tendenza ad affrontare problematiche di vasto respiro lo portò prima a scrivere un Dialogo politico contro i Luterani, Calvinisti e altri eretici e più tardi il Quod reminiscentur. In questa seconda opera, rivolgendosi a protestanti, ebrei, musulmani e pagani, indica loro la centralità del Cristo, razionalità e guida del genere umano. A suo avviso il Cristo ed il suo messaggio sono insiti in ogni autocoscienza, e necessitano soltanto di essere resi espliciti. Proponeva quindi un concilio universale presieduto dal papa, concludendo con un tocco di fantasia. Due lettere erano inviate rispettivamente agli angeli, affinché promuovessero la reminiscenza del Cristo (nel cuore di tutti i popoli), e ai diavoli, affinché desistessero dal frapporre ostacoli.
5. La teologia
Nel 1624 il Campanella portava a compimento la Theologia, in trenta libri, destinata a restare inedita fino al XX secolo[33]. Una circostanza questa che contribuì al formarsi di quel pregiudizio poi fissato da Luigi Amabile nell'affermazione che il senso del sistema campanelliano va cercato “in una negazione palliata della dogmatica del Cristianesimo”. Cosa che, alla luce proprio dell’edizione della Theologia, fu confutata dall’Amerio[34].
Anche il Badaloni, un po' come fa il Ciliberto con Bruno, ritiene che la teologia campanelliana sia inficiata dalla dissimulazione. A dire il vero, questo studioso si riferisce all'apocatastasi origeniana, che Campanella rigetterebbe, ma con argomenti “deboli” che tradiscono il suo vero pensiero. L'Amerio fa notare, però, che il discorso vale per tutta la teologia. E' vero che Campanella spesso riguardo ai dogmi di fede dice che hanno dalla loro sola auctoritas Scripturarum, ma ciò vale per tutti i dogmi, altrimenti sarebbero verità di ragione. Ora, i dogmi sono supra naturam, non tamen contraria. In altri termini, i dogmi non possono essere dimostrati razionalmente, ma razionalmente può essere mostrata la loro credibilità: non ergo sunt articuli fidei noti tantum lumine fidei, et principia naturalia naturali, sed etiam lumine naturali, quod sint evidenter credibilia[35]. []
In quest’opera il Campanella cercava di rispondere alle nuove eresie sorte dopo S. Tommaso d’Aquino e fino alla teoria della predestinazione nel Calvinismo. Sensibile alle nuove acquisizioni della filosofia, egli dava l’impressione di staccarsi da S. Tommaso, che gli appariva insufficiente di fronte alle nuove sfide derivanti dalla scoperta dell’America e dalla teoria copernicana. Tale libertà di pensiero lo portava a spostare il centro della riflessione teologica che in lui diveniva la natura, piuttosto che la Scrittura. A suo avviso, è la nostra cecità di fronte al libro aperto della natura a portarci a sopravvalutare il libro della Sacra Scrittura, a noi più adatto, ma non migliore in sé stesso, ché ottima fra tutti è la natura universale, incisa in lettere viventi, mentre la Bibbia è scritta in lettere morte, che sono solo segni e non cose [36].
L’impressione che la sua non sia una teologia in linea con la dogmatica tradizionale non è dunque infondata, come si può già intuire da questa citazione. Il suo procedimento teologico si muove secondo categorie metafisiche non aristoteliche. Parte ad esempio da un concetto di Dio in cui ontologia e gnoseologia vanno di pari passo. E quando si parla della cosa si parla anche dell'idea della cosa. Se nella conoscenza naturale l’oggetto è costituito dalle idee divine considerate attraverso l’osservazione della natura, nella teologia le stesse idee vengono lette attraverso il libro della Rivelazione, cioè la Sacra Scrittura. Onde l'Amerio commenta: tutti i dogmi del cristianesimo sono in quest’opera lumeggiati, fortificati e digesti in una sistemazione gagliarda, che sotto la rozzezza stilistica cela l’architettura delle opere rare edificate su un concetto profondo. Il riferimento alla Sacra Scrittura non deve però alterare una verità di fondo, il Cristo come Logos e quindi come ragione che permea l’universo: La ragione naturale è effetto e raggio del Verbo divino, della divina ragione, e cioè del Cristo, per il quale tutti siamo esseri razionali. Di qui tutto quel che di razionale dicono i filosofi, essi lo dicono cristianamente, anche se esplicitamente non sanno che il Cristo è la prima ragione.
Questa universale centralità del Cristo è collegata dal Campanella ad una esplicita presa di posizione di S. Giustino sul Cristo come Logos (Verbo, Ragione), e che riassumeva in modo incisivo il pensiero della scuola alessandrina: Christum primogenitum Dei esse ac rationem illam, cuius omne genus hominum particeps est, declaravimus; et qui cum ratione vixerunt, christiani sunt, etiam si athei existimati sint [37]. D'altra parte, se così non fosse tutta l'incarnazione sarebbe stato un fallimento. Il grande dramma della divinità che si incarna per riportare l'uomo al suo stato anteriore al peccato originale si concluderebbe con una situazione ben peggiore della precedente, visto che la maggioranza degli uomini non conosce esplicitamente il Cristo [38].
Tutti i popoli sono dunque in qualche modo cristiani, come si evince anche dal Vangelo di Giovanni: Erat Lux vera, quae illuminat omnem hominem venientem in huc mundum. Nessun uomo dunque è escluso dalla luce di Cristo.
Un'affermazione così perentoria (che nessun popolo è privo della luce di Cristo) porta con sé tutta una serie di conseguenze nei vari campi. Tra questi quella dell'uguaglianza fra tutti gli uomini e quindi il diritto internazionale (brillantemente già sviluppato da Francisco de Vitoria), e quindi dell'immoralità della guerra di conquista anche per motivi di evangelizzazione (Christus enim mittit eos sicut oves in medio luporum, et non cum bombardis), come pure del diritto di proprietà se non in termini funzionali. E qui il Campanella si riallaccia alla teologia di S. Tommaso sul regime comunitario della proprietà, la quale, se resta lecita in termini funzionali, diviene illecita quando i bisogni vitali dell'uomo lo esigono[39].
E allora in questo universo dominato dalla volontà del Padre che nel pensare sé si vede e si rende partecipabile, e dalla regalità di Cristo che illumina tutti, perché Dio ha permesso il peccato ? Questo è il punto sul quale maggiormente il Campanella avverte il senso del mistero. Egli condivide le perplessità di S. Giovanni Crisostomo che, pensando all'inferno, riteneva migliore lo stato anteriore al peccato originale. Non riesce a far sua l'espressione frequente nei Padri di felix culpa, né riesce a fare suoi i quattro motivi addotti da S. Tommaso (primo che Dio non può astenersi dal creare pensando che alcune anime si danneranno, secondo che la consapevolezza del peccato fa comprendere la gratuità del del bene, terzoche il gaudio dei beati sarà maggiore pensando al dolore dei reprobi, quartoche con l'impeccabilità di Adamo non ci arebbe stato né libertà né merito). Perché Dio abbia permesso il peccato per lui resta dunque un mistero[40].
Al peccato originale è però legato un altro problema teologico non meno importante: Perché Dio si è fatto uomo ?
Come si sa nella teologia cattolica ha prevalso la tesi “giuridica” di S. Anselmo, che vede lo scopo dell'incarnazione nella necessità di lavare l'offesa a Dio e di redimere l'uomo dal peccato originale. Quindi non ci sarebbe stata incarnazione se non ci fosse stato il peccato originale. Questa tesi, fatta sua anche da S. Tommaso, era stata sostenuta anche dal Campanella, ma nella Theologia, la riprende alla luce della doppia predestinazione. Cristo si è incarnato anche per eliminare le conseguenze del peccato originale, ma il motivo principale è che già prima del peccato era prevista come ab aeterno in una carne impassibile e gloriosa; Deum prius praedestinasse omnes creaturas humanas rationales ad gloriam suam per Verbum suum incarnandum, cuius imagini omnes conformes eramus in statu innocentiae, quando caro Christi et caro nostra futurae erant impassibiles, et in statu peccati fimus per donum redemptionis eius[41]. Una predestinazione ab aeterno che si avvicina alquanto alla corrente (Abelardo, Alberto Magno, Scoto) che vede l'incarnazione come prodotta dall'amore divino piuttosto che dalla necessità di redimere l'uomo dal peccato.
In ogni caso, ecco che il Verbo si è incarnato dopo vari sconvolgimenti astronomici preannunciati e descritti dai profeti. Aggeo profetizzò esplicitamente: Ancora un po', ed io sconvolgerò il cielo e la terra... e giungerà colui che è desiderato da tutte le genti (Aggeo, XI, 7). Queste anomalie e mutamenti celesti, così congeniali a tutto il modo di pensare del Campanella, precedono dunque l'avvento e prefigurano l'universalità dell'opera del Cristo, a cominciare dalla fondazione della Chiesa.
La Chiesa allora si presenta come l'estensione del Logos sul mondo. Cristo infatti non ha soltanto una signoria spirituale, ma anche una signoria temporale, in quanto il Verbo non può accontentarsi di essere rivelato ad una piccola parte dell'umanità. E dato che la continuazione della sua opera attraverso la Chiesa l'ha affidata al papa, è il ppa che ha il compito di governare l'umanità. L'argomento teologico per questo passaggio dalla cristologia all'ecclesiologia (già presente peraltro negli Articuli prophetales) è riprodotto nella Theologia in termini che vengono così riassunti dall'Amerio:
La necessità discende dalla costituzione teandrica del Cristo il quale in un'unica persona, e precisamente divina, esercitò le operazioni della natura umana e della natura divina insieme. Poiché dunque il Cristo ha assunto l'umanità senza la persona, l'Imperatore rappresenta l'umanità temporale, ma non la persona, laddove il papa rappresenta la divinità stessa con la persona: ne consegue che la potestà temporale non ha altro soggetto personale che la sostenga fuorché il papa, e che nel papa pertanto risiede la pienezza della potestà regale, niente restandone per l'Imperatore fuorché per comunicazione ed investitura del papa[42].
Naturalmente, ad una simile argomentazione si potrebbero obiettare le stesse parole di Cristo: il mio regno non è di questo mondo. Ma il Campanella fa notare che quella stessa frase di Giovanni (XVIII, 36), non si ferma lì, ma continua, concludendosi con: “ora il mio regno non è di questo mondo” (Nunc autem regnum meum non est de hoc mundo). Il che significa che ciò valeva solo fino alla resurrezione, dopo di che, con l'inizio dell'autorità del suo vicario il papa era sì di questo mondo. Se dunque Cristo è il Logos dell'intera comunità umana, la Chiesa è l'organizzazione del genere umano. Ora, se il papa sostituisce visibilmente il Cristo in questo corpo universale e vivente, non è da questo corpo che deriva la sua autorità, ma è egli la fonte di tutte le autorità che dentro di esso si esercitano[43].
L'autorità del papa non sovrasta soltanto quella dell'Imperatore, ma anche quella del Concilio, che è appunto l'espressione del corpo. Ma tutto il corpo, formato da elementi eterogenei, non è superiore al capo se non quantitativamente. Qualitativamente il primato resta al papa. Trattasi cioè di una monarchia e non di una oligarchia né tanto meno di una democrzia. E' vero che il papa è eletto tramite la Chiesa, ma non dalla Chiesa: Papa est per Ecclesiam, sed non ab Ecclesia, sed a Christo[44].
Una volta entrato nella tematica ecclesiologica, Campanella passa anche ai sacramenti. Questi sono studiati secondo i principi metafisici delle primalità, ma il filosofo calabrese è attento in questo caso a non esclusivizzarli. Per cui, dopo aver lumeggiato i sacramenti secondo questi principi, aggiunge sempre che in “senso stretto” le modalità e il significato portante è quello proposto dalla Chiesa.
6. Campanella: premozione fisica e Immacolata Concezione
Pur ammirando moltissimo S. Tommaso, il Campanella riteneva un errore da parte dell’Ordine domenicano la divinizzazione della sua filosofia. Ciò nonostante, egli era convinto di seguire l’Aquinate più di quanto facessero coloro che lo chiamavano in causa senza conoscerlo veramente. Là dove Campanella si discostò consapevolmente dalla teologia tradizionale domenicana fu sulla premozione fisica e sull’Immacolata Concezione.
A dire il vero, negli scritti giovanili, quando ancora non era sentita in lui la polemica antiprotestante, si era espresso in senso opposto. Nel 1598 si era aperta la controversia de auxiliis che opponeva i domenicani ai gesuiti. Preso da entusiasmo giovanile, nell’agosto di quell’anno, trovandosi nel convento domenicano di S. Maria di Gesù a Stilo, Campanella compose 50 articoli contro la dottrina molinista della “concordia” (che, negando la premozione fisica di Dio, insisteva sulla concomitanza dell’azione divina e dell’azione umana) e della predestinazione. Fedele alle direttive dell’Ordine il filosofo calabrese difese sia la premozione fisica che la predestinazione ante previsa merita. Che però queste non fossero sue profonde convinzioni lo rivela il modo in cui più tardi riferirà la cosa: Item scripsi “De Auxiliis” contra Molinam pro Thomistis et diversa opuscula in gratiam amicorum [45]. In altri termini, s’era messo al lavoro sia per spirito di corpo sia per accontentare la richiesta di qualche amico nell’Ordine.
Successivamente le cose cambiarono, soprattutto perché il Campanella fu tra coloro che maggiormente si impegnarono nell’attività missionaria della Chiesa cattolica, come dimostra il suo Reminiscentur. Allo stesso modo era impegnato nella conversione dei protestanti, scopo che egli riteneva raggiungibile solo mettendo in rilievo la libertà umana e l’importanza delle buone opere. Anzi, per sottolineare la libertà umana si era staccato da quegli astrologi che ritenevano determinanti gli influssi astrali. Per lui invece, nonostante tali influssi, l’uomo aveva la capacità di sottrarsi ad essi proprio perché libero.
Invece, la posizione domenicana sulla premozione fisica era talmente preoccupata di salvaguardare la divina causalità universale al punto da mettere in ombra la libertà umana e quindi il ruolo dell’uomo nel raggiungimento della salvezza. La fedeltà a S. Tommaso era per loro più importante della preoccupazione di allinearsi praticamente sulle posizioni calviniste. Ed anche se Campanella insisteva che non era quello il pensiero di S. Tommaso, l’accusa che gli veniva rivolta era proprio di schierarsi contro il tomismo.
Nel corso del 1627, proprio mentre era sotto processo a Roma per 80 tesi tratte dal suo Atheismus triumphatus dall’allora consultore del Sant’Uffizio Niccolò Riccardi, e che vertevano prevalentemente sulla predestinazione, decise di scrivere un trattato specifico De praedestinatione. Nel marzo del 1629 ventidue tesi essenziali tratte da questo trattato furono approvate da tre teologi romani. Ormai consapevoli del favore del papa Urbano VIII nei suoi confronti, i padri del capitolo generale di Roma il due giugno gli conferirono il titolo di “maestro in sacra teologia”. Ma l’argomento era troppo scottante per i domenicani e solo i contrasti interni all’Ordine evitarono la condanna di quanto da lui esposto sia nell’Atheismus triumphatus, sia nel libro VI della Theologia che nel trattato specifico De praedestinatione. Gli unici domenicani ad approvarla, non per convinzione ma per dispetto verso i domenicani romani, furono quelli della Congregazione domenicana gallicana, nella persona del vicario di essa padre Julien Joubert.
In questa più matura riflessione sulla premozione fisica il filosofo calabrese era convinto che i domenicani Bañez e Alvarez, per contrastare la posizione dei gesuiti, avevano forzato la dottrina tomista al riguardo. Affermando infatti che Dio ogni cosa ha predeterminato con decreto assoluto senza riguardo se saremo boni o mali, proprio come vòle Calvino e Lutero, in realtà si mettono sulle stesse posizioni dei protestanti. E’ vero che Dio ha predestinato tutti, ma secondo la sua volontà di salvezza universale. Quando invece ha previsto le opere buone e le opere cattive predestinò Cristo per redentore e li aderenti a lui, e reprobò solo i miscredenti come giudice, non come padre, e li ostinati nel peccato volontariamente.
Questo tentativo di conciliare il Molina con il Bañez suscitò, come si è detto, molto disappunto nell’Ordine, specialmente quando nel 1636 a Parigi per i tipi di Ognissanti Dubray vedeva la luce il Cento thomisticus de praedestinatione, electione, reprobatione et auxiliis divinae gratiae. Già verso la fine di quell’anno la commissione dei teologi deputata al suo esame ne decretò l’inserimento nel Liber librorum prohibitorum [46]. I confratelli della Minerva erano in prima linea nell’accusa a Campanella di non essere tomista e forse neppure cattolico.
Due mesi prima di morire scriveva: Il padre generale e il padre Mostro e i regenti spagnioli m’hanno suscitato guerra in Roma contro conscienza… Aspetto le censure fatte contra i libri miei [47]. Le censure che egli attendeva lo accusavano di Pelagianesimo, concludendo con queste parole: Si deve esaminare con somma attenzione questo autore, perché la sua dottrina non si risolva in perdizione delle anime e perché egli, con l’autorità delle sue tesi, non trascini all’estrema pazzia dei Pelagiani i fedeli di Francia presi dal desiderio di fuggire il Calvinismo e il Luteranesimo [48].
Veda Vostra Signoria illustrissima, scriveva nel 1638 a Cassiano del Pozzo, in quanto precipizio hanno spinto questi miei persecutori lo stato ecclesiastico ed io, perché mostrai san Tomaso esser contrario a questa loro opinione: perché lui più volte espressamente scrive che Dio non ha predeterminato li futuri contingenti e liberi, né li conosce nel decreto, né anche nelle cause indeterminate e mutabili, ma solo nella coesistenza presenziale delle cose future nell'eternità, come pure il Capreolo ed altri meco affirmano. E però Dio ha tutti in voluntate antecedente predestinati come padre, tutti fatti all'imagine e similitudine sua e non del diavolo ante praevisionem meritorum et demeritorum; ma post praevisionem, come giudice, ha reprobati solo quelli chi moreno ostinati nel peccato, ed eletto e confirmato quelli chi «satagunt per bona opera certam facere vocationem suam», dice san Pietro. E li fanciulli chi non hanno opere, si salvano per l'opere di Cristo ad bona supernaturalia qui conformantur Christo per sacramenta in supernaturalibus, et ad bona Dei naturalia illi qui conformantur Christo in naturalibus tantum[49].
Se questa dottrina sulla grazia opponeva i domenicani ai gesuiti, quella dell’Immacolata Concezione opponeva i domenicani (che la negavano) ai francescani che la sostenevano. Il filosofo calabrese, anche in questo caso tentò una conciliazione. A dire il vero lo fece in un momento (nel corso del 1624) in cui stava cercando di convincere gli spagnoli della sua lealtà. E, come si sa, erano soprattutto le autorità spagnole che facevano di tutto per imporre la dottrina dell’immacolata concezione. Tuttavia è probabile che il trattato De conceptione beatae Virginis (dedicato al card. Gabriele Trexo y Paniagua) rispondesse effettivamente al suo pensiero. In esso, rilevando la ricchezza di pensatori nell’Ordine domenicano, sosteneva che non tutti erano contro l’Immacolata Concezione di Maria. Da parte sua era rimasto colpito dalla lettura di S. Brigida e dalla constatazione della devozione ormai universale.
A suo avviso lo stesso S. Tommaso, nel Commento alle Sentenze (I, 44), aveva sostenuto la dottrina dell’Immacolata Concezione. E tale tesi è preferibile a quella della Summa Theologica sia perché riporta il pensiero più personale (nella Summa è spesso sintesi di pensiero altrui), sia perché è un’opera compiuta, mentre la Summa doveva essere riveduta e corretta.
Sulla riforma della vita religiosa, mentre era nel carcere di S. Sabina (1596), il Campanella fece delle proposte su cui tornerà più tardi:
Quando volea Clemente VIII reformare i religiosi, ogn’un facea nuove leggi e ordini e riforme di vestimento, di ceremonie, di lezioni, di digiuni, etc. Io, che ero in Santa Sabina, dissi che tutto era soverchio quello che i comissarii facevano, perché basta la regola sola, ma che essi non toccavano il temone, e dissi che il temone era solo fare che nissuno avesse chiave e serratura nelle casse e nella camera, se non comune del dormitorio, che così cessava la proprietà, i libri lascivi, i processi, li doni, etc. Ma perché questo temone toccava tutta la barca sino ai capi priori non lo volsero toccare, perché cercavano leggi sopra i novizi e conversi e non sopra di sé.
7. La città del Sole
Se vi trovate a passeggiare sotto le mura del Cremlino, ad un centinaio di metri dalla Piazza Rossa, vedrete una specie di obelisco con un elenco di nomi disposti uno sotto l’altro. Dopo Karl Marx ed alcuni altri comunisti celebri, ma sempre in lettere cirilliche, compare il nome di Tommaso Campanella. Il motivo è ovvio. Il Campanella appartiene a quella eletta famiglia di utopisti, come Platone e Thomas More, che hanno sognato una società in cui tutto fosse in comune. E ciò a motivo della Città del Sole, scritta, come si è detto, nel 1602, tra una tortura e l’altra nelle carceri napoletane.
Questo scritto[50], che ha oscurato in celebrità tutti gli altri del Campanella, è strutturato come un dialogo fra un cavaliere gerosolimitano (ospitalario) e un navigatore genovese, che ha girato il mondo ed ha visitato innumerevoli luoghi e visto innumerevoli popoli. Il genovese racconta una delle sue più straordinarie esperienze, l’incontro con una società felice vivente comunitariamente sull’isola di Taprobana (Ceylon). Costretto a scendere su quest’isola, il genovese è condotto nella Città del Sole, costruita su un’alta collina e circondata da sette cerchia di mura. Queste gli sono apparse munitissime e quasi inespugnabili, e gli abitanti le conoscono ciascuna col nome di uno dei sette pianeti. Sul punto più alto della collina sorge il tempio del Sole, il cui sacerdote si chiama Hoh, che in lingua occidentale corrisponde approssimativamente a Metafisico. Questi, che ha vastissime nozioni in varie scienze (e soprattutto in metafisica e teologia), ha il compito di governare l’isola, assistito da tre capi: Pon (Potenza), Sin (Sapienza), Mor (Amore), addetti rispettivamente all’esercito e alla sicurezza, alla pubblica istruzione e alla generazione.
Allo scopo di fare crescere una popolazione rispettosa dell’impostazione della vita in Taprobana, Sin ha fatto istoriare le mura della città con gli elementi centrali di ogni scienza, di modo che sin da piccoli gli abitanti assimilino i dati fondamentali senza particolari sforzi, ma in modo abbastanza naturale.
Mor, invece, che è il ministro della generazione, si preoccupa di preservare la comunanza dei beni. Mancando la proprietà privata, si evita l’amor proprio ed ognuno realizza la sua felicità nella vita in comune. Di conseguenza non vi sono neppure padroni e schiavi, ma tutti sono uguali. In comune sono anche i dormitori e i refettori. Anche i vestiti sono uguali per tutti, suddivisi in quattro tipi a seconda delle quattro stagioni. Alcuni medici si preoccupano dei vestiti da indossare e dei cibi da mangiare in determinati periodi.
I magistrati assolvono anche la funzione di sacerdoti, e i ministri di Sin si preoccupano di selezionare i giovani (non prima dei venti anni) e le giovani (non prima dei 19 anni) per l’accoppiamento e il miglioramento della razza. Uomini e donne imparano tutte le arti, anche quella militare. L’unica differenza è nel fatto che alle donne sono riservati compiti meno onerosi. Anche l’agricoltura e la pastorizia sono tenute in onore, un pò meno la mercatura. L’arte nautica ha raggiunto un elevato livello, tanto che gli abitanti hanno navi che solcano i mari senza remi e senza vele. Possiedono anche macchine per volare.
In religione si crede in Dio e nell’immortalità dell’anima, ma si lascia alla personale opinione la questione del luogo, del tipo e dell’eternità o meno della pena. I magistrati assolvono anche al compito sacerdotale e attraverso le libere confessioni vengono a sapere i vizi più ricorrenti per poi trovare la soluzione. Credono all’immortalità dell’anima, ma sospendono il giudizio sui luoghi riservati poi al premio e alle pene, come pure sulla loro durata. La legge è ispirata dunque ad un cristianesimo naturale, e l’unica guerra ammessa è quella (sempre vittoriosa tra l’altro) per liberare popoli oppressi.
La Città del Sole presenta qualche analogia con la Repubblica di Platone, nonché col Timeo ed il Crizia, che parlano dell’isola di Atlandide. Di isole felici avevano parlato sia Esiodo nelle Opere e i giorni (makaron nesoi, isole dei beati) sia Orazio nelle Odi e negli Epodi (divites insulae). Ma forse un influsso più diretto lo esercitò l’Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1518 col titolo: De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia libellus vere aureus (molto lodata da Erasmo per la difesa decisa della tolleranza religiosa). Secondo il De Sanctis, senza accorgersene, il Campanella aveva applicato alla repubblica ideale quel machiavellismo, da lui ripetutamente criticato.
[1] Cfr. Giuseppe Villa, Memoriae Historicae, a cura di V. Ferrua, cit., p. 222.
[2] Parigi, 9 aprile 1635. Lettera LXXXII. Il testo integrale è molto più lungo. Vedi Tommaso Campanella, La Città del Sole, a cura di Franco Mollia, Mondadori, Milano 1991, pp. 235-250.
[3] Cfr. Un opuscolo inedito ritenuto perduto di Tommaso Campanella. Il De praecedentia Religiosorum, in AFP LII (1982) pp. 267-323.
[4] Ambrogio Eszer, Niccolò Riccardi O.P., il “Padre Mostro” (1585-1639), Angelicum, 1983 (3), pp. 428-461.
[5] Walz, Compendium, cit., p. 281.
[6] Dalla ricchissima bibliografia segnalo soltanto L. Amabile, Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, I-III, Napoli 1882; R. Amerio, Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Milano Napoli 1972; L. Firpo, I processi di Tommaso Campanella, Salerno Editrice, Roma 1998; T. Campanella, Metafisica (lib. I), a cura di Paolo Ponzio, Levante, Bari 1993; Metafisica (lib. XIV) a cura di Teresa Rinaldi, Levante, Bari 2000; Gianfranco Formichetti, Tommaso Campanella. Eretico e mago alla corte dei papi, Piemme, Casale Monferrato 1999; Ernst G., Tommaso Campanella, Roma Bari 2002; Carlo Longo, Gli anni giovanili di Fr. Tommaso Campanella O.P, 1568-1589, in AFP LXXIII (2003), pp. 363-390.
[7] Non mancano però studiosi che ritengono Campanella un panteista, come ad esempio Franco Mollia. Cfr. Campanella, La città del Sole e altri scritti, a cura di Franco Mollia, Oscar Classici Mondadori, Milano 1991, p. 35-37.
[8] Firpo, I processi, p. 5.
[9] La prima edizione è in traduzione tedesca: Von der spanischen Monarchy, a cura di Christof Besold, s. l., 1620 (rist. 1623); in trad. latina Amsterdam 1640 (e nuovamente 1641 e 1653); in traduzione inglese London 1654. L’edizione italiana fu curata da A. D’Ancona nel volume: Tommaso Campanella, Opere, vol. II, Torino 1854.
[10] Cfr. T. Campanella, Lettere, a cura di V. Spampanato, Bari 1927, p. 132.
[11] Il Ms I. D. 54 della Biblioteca nazionale di Napoli ha questa intitolazione: Del Senso delle cose libri Quatro di Fra Tommaso Campanella. Scritti di Fra Tommaso Campanella Dominicano Fatti nell’anno 1625, parte mirabile d’occulta filosofia, dove si mostra il mondo esser statua di Dio, vivo et bene conoscente, et tutte sue parti, et particelle loro havere senso chi più chiaro chi più oscuro quanto basta alla conservatione loro et del tutto in cui consentono et si scuoprono le ragioni di tutti li secreti de la natura. Cfr. T. Campanella, Il senso delle cose e la magia, a cura di Antonio Bruers, Fratelli Melita Editori, Genova 1987, p. XI.
[12] Edita da L. Firpo insieme ai Discorsi sullo Stato ecclesiastico, rist. anastatica, Torino 1960.
[13] Universalis philosophiae seu Metaphysicarum rerum, iuxta propria dogmata, partes tres, libri XVIII, redatta in italiano e latino fra il 1602 ed il 1610, pubblicata a Parigi nel 1638. Cfr. Metafisica, I-III, a cura di G. Di Napoli, Bologna 1967; Metafisica, edizione critica del libro I, a cura di P. Ponzio, Ed. Levante, Bari 1994.
[14] Atheismus triumphatus, Roma 1631, Parigi 1636. Tra i vari scritti sull’argomento segnalo quello di Vito Angiuli, Ragione moderna e verità del cristianesimo. L’Atheismus triumphatus di Tommaso Campanella, Levante Editori, Bari 2000.
[15] Cfr. Indicis librorum expurgandorum in studiosorum gratia confcti liber primus per Fr. Io. Mariam Brasichellen, Sacri Palatii Apostolici Magistrum, Romae 1607
[16] Cfr. Firpo, I processi, cit., p. 79. Sull’atteggiamento benevolo del Tragagliolo verso Campanella, vedi anche Amabile, Fra Tommaso, cit., II, pp. 119 e 205-206.
[17] Tommaso Campanella, De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, a cura di Armando Brissoni, Rubbettino, Soveria Mannelli – Messina 1996, p. 47; sugli amici e nemici del Campanella nell’Ordine domenicano vedi il già citato Un opuscolo inedito di Michele Miele, lo stesso nel quale l’autore difende il Ridolfi dalle accuse del Campanella. Il suo rapporto con i domenicani calabresi negli anni giovanili è stato oggetto della già menzionata ricerca di Carlo Longo (vedi nota 6). Mentre, specificamente a Serafino Rinaldi e ai suoi rapporti col Campanella è dedicato lo studio del P. Michele Miele Il « mio curatore affezionatissimo cui devo anche me stesso » : Serafino Rinaldi da Nocera e Campanella, in “Bruniana e Campanelliana”, a. XIII (2007, 2), Pisa Roma 2008, pp. 497-519. Ivi il Miele ritiene più numerosi gli avversari di Campanella, mentre pone fra gli “amici”, oltre al Rinaldi, il Maculano, il Lupi e il De Marinis (futuro generale dell’Ordine).
[18] Ivi, p. 51.
[19] Cfr. Firpo, I processi, cit., pp. 156-157.Eugenio Canone, diligente curatore dei Processi del Firpo, perdendo di vista lo sfondo di tutta la vicenda (la lotta cioè fra riformati e conventuali) ritiene che fra Cornelio si trovasse casualmente in Calabria come socio di fra Marco di Marcianise. Ma non si tratta di casualità, bensì del fatto che i Lombardi a Napoli appartenevano allo stesso movimento riformista rigorista di fra Marco. In altri termini partecipava ad una specie di spedizione punitiva. La logica dello scontro fra le due correnti c’era tutta.
[20] Cfr. L. Firpo, Campanella Tommaso, in DBI 17, pp. 372-401 (in particolare p. 389).
[21] Cfr. Luigi Firpo, La proibizione delle opere del Campanella, ivi, p. 321-322. Per una tesi diametralmente opposta si pronuncia il già citato Ambrogio Eszer, (Niccolò Riccardi O.P. cit.), il quale, invece di vedervi l’inganno nel dare i suoi imprimatur (alla Monarchiae Messiae il 10 gennaio 1629; Atheismus trimphatus il 30 maggio 1630; opere subito ritirate dalla circolazione), soprattutto a quell’Astrologia di Campanella che ben sapeva che dava fastidio al papa, interpreta il tutto come innocente leggerezza, che poi il Riccardi cerca di evitare nel caso Galilei.
[22] Ivi, p. 323.
[23] La prima parte de’ Ragionamenti sopra le letanie di nostra Signora del P. Maestro fra Nicolò Riccardi dell’Ordine de’ Predicatori e reggente della Minerva in Roma, in Genova per Giuseppe Pavoni, 1626. Lo scritto del Campanella era intitolato Censure sopra il libro del P. Mostro: “Ragionamenti sopra le litanie di Nostra Signora”, (recentemente edite a cura di A. Terminelli, Roma 1998). Per un’analisi di questo testo campanelliano, vedi Michele Miele, Tommaso Campanella e le Censure al P. Mostro, ove l’opera del Mostro è vista come esagerazione barocca promotrice di una preghiera superstiziosa che vede la Madonna quasi al di sopra di Dio, ma la critica del Campanella rimane eccessivamente troppo acre, Il Miele, parlando della pubblicazione dell’Astrologia parla di “stampa truffaldina dei soliti avversari del frate calabrese” (invece che al P. Mostro), e attribuisce l’ira del Campanella verso il Riccardi al fatto di essere “esasperato per gli ostacoli a lui frapposti” nel dare l’imprimatur.
[24] Lettera al card. nipote Francesco Barberini, in A. Guzzo, R. Amerio, Le opere, cit., pp. 998, 1000.
[25] F. Bacone, Historia naturalis et experimentalis ad condendam philosophiam, Londini 1622, p. 4.
[26] Cfr. Lettera LXV, a Galileo Galilei, Roma, 5 agosto 1632. In T. Campanella, La città del Sole e altri scritti, a cura di Franco Mollia, Mondadori, Milano 1991, p. 202.
[27] Theologia, Lib. XIV, cap. 9 (Magia e grazia, Roma 1957, p. 164) e cap. 10, a. 1, (ivi, p. 238). Cfr. Amerio, Il sistema, cit., p. 152-155
[28] Thelogia, IV, 5,2.
[29] Cfr. Epilogismo, citato da F. Mollia nell’introduzione a Campanelle, La città del Sole, cit., p. 36.
[30] Metaphysica, Parte II, lib. VII,cap. 4, art. 3, p. 136a; Amerio, Il sistema, cit., p. 17.
[31] Cfr. Amerio, Il sistema, cit., p. 19.
[32] Ivi, p. 24.
[33] A pubblicare questa grande opera del Campanella è stato Romano Amerio, autore successivamente della monografia su Il sistema teologico di Tommaso Campanella. Al momento in cui uscì la monografia erano stati già pubblicati i seguenti volumi:
Libro I, Milano 1936
Libro II, De sancta Monotriade, Roma 1951
Libro III, Cosmologia, Roma 1964
Libro IV, De homine, I (Roma 1960) II (Roma 1961)
Libro V, Le creature soprannaturali, Roma 1970
Libro VII, Della beatitudine, Roma 1971
Libro XIII, Della grazia beatificante, Roma 1959
Libro XIV, Magia e grazia, Roma 1957
Libro XVI, Il peccato originale, Roma 1960
Libro XVIII, Cristologia, I-II, Roma 1958
Libro XXI, De vita Christi, Roma I (1962), II (1963)
Libro XXIII, De dictis Christi, Roma 1969
Libro XXIV, I sacri segni, Roma I (1965), II-IV (1966), V (1967), VI (1968)
Libro XXVI, De Antichristo, Roma 1965
Libro XXVII-XXVIII, La prima e la seconda resurrezione, Roma 1955
Libro XXIX-XXX, Escatologia, Roma 1969
Libro I, Milano 1936
Libro II, De sancta Monotriade, Roma 1951
Libro III, Cosmologia, Roma 1964
Libro IV, De homine, I (Roma 1960) II (Roma 1961)
Libro V, Le creature soprannaturali, Roma 1970
Libro VII, Della beatitudine, Roma 1971
Libro XIII, Della grazia beatificante, Roma 1959
Libro XIV, Magia e grazia, Roma 1957
Libro XVI, Il peccato originale, Roma 1960
Libro XVIII, Cristologia, I-II, Roma 1958
Libro XXI, De vita Christi, Roma I (1962), II (1963)
Libro XXIII, De dictis Christi, Roma 1969
Libro XXIV, I sacri segni, Roma I (1965), II-IV (1966), V (1967), VI (1968)
Libro XXVI, De Antichristo, Roma 1965
Libro XXVII-XXVIII, La prima e la seconda resurrezione, Roma 1955
Libro XXIX-XXX, Escatologia, Roma 1969
[34] Amerio, Il Sistema, cit., pp. 3-4.
[35] Theologia, Lib. I, cap. 1, art. 3, p. 19. Amerio, Il sistema, cit., p. 322
[36] Theologia, lib. XXIV, cap. 2, art. 1, ove il Campanella dice che res omnes esse sacramenta. Vedi anche Amerio, Il Sistema, cit., p. 9-10.
[37] Atheismus Triumphatus, seu contra Antichristianismum, Parisiis 1636, p. 106. Amerio, Il sistema, cit., p. 6.Il riferimento di S. Giustino è nell'Apologia, cap. 46.
[38] Amerio, Il sistema, cit., pp. 51-52.
[39] Ivi, p. 112-113.
[40] Theologia, lib. XVI, cap. 2, a. 5, p. 80: Quapropter cum non inveniamus quietem intellectui nostro, illud praeclare factum a Patribus agnoscimus, cum iudicium occultum esse permissionis huius in peccato Adae confitentur. Et rationes eorum recte Deum non esse causam peccati persuadent, non autem propter quid permiserit peccatum angelorum et hominum, si omnes non erunt aliquando salvandi; neque melius esse mundo ex hoc quod peccavit Adam, quam si non peccasset, vel nobis occultam esse hanc melioritatem.Vedi su tutta la problematica Amerio, Il sistema, cit., pp. 170-183.
[41] Theologia, lib.XVIII, cap. 5, art. 5, p. 108.
[42] Amerio, Il sistema, cit., p. 236.
[43] Ivi, pp. 240-243.
[44] Theologia, lib. XXII, cap. IV, a. 2, ad octavum (Amerio, Il sistema, cit., p. 245).
[45] Tommaso Campanella, De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, a cura di Armando Brissoni, Rubbettino, Soveria Mannelli – Messina 1996, p. 42.
[46] Firpo, La proibizione delle opere del Campanella, in I processi, cit., pp. 325-330.
[47] Ivi, p. 326.
[48] Ivi, p. 327.
[49] Cfr. Campanella, La città del Sole e altri scritti, a cura di Franco Mollia, Oscar Classici Mondadori, Milano 1991, p. 265.
[50] Titolo intero: La Città del Sole, cioè Dialogo di Repubblica nel quale si dimostra l’idea di riforma della Repubblica cristiana conforme alla promessa da Dio fatta alle sante Caterina et Brigida, composta in due redazioni italiane (1602 e 1611) e due latine (1613 e 1631). La prima edizione fu in latino (Francoforte 1923), a cura dell’amico Tobia Adami, come appendice alla Realis philosophia epilogistica. Al 1941 risale l’edizione critica di Norberto Bobbio. Recentemente c’è stata l’edizione Campanella, La Città del Sole e altri scritti, a cura di Franco Mollia, Mondadori, Milano 1991, nonché La Città del Sole. Questione quarta sull’ottima repubblica, a cura di Germana Ernst, Rizzoli, Milano 2001.
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